«La vera sfida non è formare le donne alla leadership inclusiva, ma far capire ai top manager che devono iniziare ad adottare uno schema di comando più inclusivo e basato su alcune soft skill, come la capacità di valorizzare la diversità delle risorse o l’ascolto empatico. Preferisco parlare di leadership inclusiva, piuttosto che di leadership al femminile, altrimenti si incorrere nel rischio di alimentare gli stereotipi di genere». È solo una delle riflessioni che emergono dall’intervista con Anita Falcetta, consulente aziendale D&I, fondatrice di Mokamusic e di Women of Change.
Da un recente articolo del Guardian emerge come le donne in posizioni di leadership sperimentino un “gender tenure gap”, ovvero la permanenza nei ruoli di amministratrice delegata di società quotate in borsa per periodi più brevi rispetto agli uomini. L’articolo si rifà a una ricerca della società Russell Reynolds, secondo la quale il rischio per queste donne è quello di essere destinate a fallire.
Il concetto di “glass cliff” (precipizio di vetro) riconosce alle donne maggiori probabilità di essere nominate leader quando un’organizzazione si trova in un momento di crisi, per cui la loro posizione è vista come più precaria rispetto alle controparti maschili.
Si parla di leadership anche in una ricerca di EY, secondo la quale il 23% delle donne ritiene che non sarà mai raggiunto un equilibrio di genere nei ruoli direttivi. Questo punto di vista sembra essere sostenuto anche dai dati stilati dal World Economic Forum nella 17esima edizione del Global Gender Gap Report, che vede scivolare l’Italia di sedici posizioni, passando dal 63esimo al 79esimo posto su 146 paesi.
Abbiamo parlato di leadership femminile e inclusiva con Anita Falcetta, consulente aziendale D&I, fondatrice di Mokamusic e di Women of Change.
Secondo l’ultimo report del World Economic Forum il tasso di assunzione delle donne in ruoli dirigenziali negli ultimi anni è aumentato dell’1% a livello globale. Quanto contano, secondo te, una leadership inclusiva e la parità di genere per lo sviluppo di un’azienda?
Negli ultimi due anni mi sono specializzata nella consulenza per la parità di genere secondo la UNI Pdr 125122 e penso che uno dei modi che le aziende hanno per dimostrare il loro impegno sia quello di intraprendere il percorso della certificazione per la parità di genere. Questo tipo di impegno va dimostrato sia internamente che esternamente.
A livello globale le istituzioni si stanno muovendo in questa direzione. Mi viene in mente il recente caso dell’Islanda, dove sono scese in piazza decine di migliaia di donne per protestare contro la disuguaglianza di genere e il divario salariale. Nonostante l’Islanda sia considerata uno dei paesi più avanzati al mondo in termini di uguaglianza di genere, in alcuni settori le donne guadagnano ancora il 20 per cento in meno rispetto ai colleghi uomini. Anche in Italia è importante questa coltivare questa unità, così come per le aziende è importante sostenere lo Stato nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030.
Che difficoltà hai incontrato come consulente aziendale nella D&I e fondatrice di Women Of Change?
Le criticità sono legate al fatto che, se da un lato sono state sdoganate nuove misure come la UNI Pdr, dall’altro è come se ci fosse ancora una distanza tra il mondo delle imprese e quello delle istituzioni. La Uni Pdr è stata inserita tra i requisiti premiati all’interno del codice nazionale degli appalti. Questo ci fa capire come le aziende che partecipano ai bandi di gara, possano trarre vantaggio dalla certificazione in termini di sgravi fiscali, per esempio. A volte ho come l’impressione che ci sia la tendenza da parte di alcune imprese “a compilare una checklist”. Il passaggio successivo, invece, è quello di interiorizzare nell’azienda il codice di valori che sposa il principio dell’inclusione e della diversità.
Elabori anche corsi su leadership inclusiva. Vuoi farci qualche esempio?
Premetto che per me la formazione è la chiave per il cambiamento duraturo. Come diceva la giudice della corte suprema degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg: “il cambiamento quello duraturo lo otteniamo a piccoli passi”. Formazione e educazione portano a questo. Quando ci riuniamo con associati e associate di WOC, che è aperta a uomini e donne, senza limiti di provenienza geografica e settore professionale, pongo l’attenzione anche sulla maternità e sulla genitorialità. Per questo, come associazione diamo vita a progetti concreti per superare la violenza di genere anche tra i minori.
Durante il Festival del cinema di Venezia e quello di Roma, per esempio, con l’associazione abbiamo lanciato una campagna di sensibilizzazione per l’eliminazione della violenza di genere tra i minori attraverso dei percorsi di educazione alla relazione.
Per quanto, invece, riguarda la formazione che faccio nelle aziende, quando mi trovo a scrivere un corso sul linguaggio inclusivo quello che cerco di fare è dare una visione il più possibile ampia.
La vera sfida non è formare le donne alla leadership inclusiva, ma far capire ai top manager che devono iniziare ad adottare uno schema di comando più inclusivo e basato su alcune soft skills, come la capacità di valorizzare la diversità delle risorse o l’ascolto empatico. Preferisco l’uso del termine “leadership inclusiva” piuttosto che “leadership al femminile” altrimenti il rischio è quello di alimentare gli stereotipi di genere. Spesso questi corsi di leadership vengono rivolti esclusivamente alle donne, quando non dovrebbe essere così.
È più facile far capire l’importanza di una leadership inclusiva ai top manager o alle giovani generazioni?
Penso sia fondamentale agire a tutti i livelli e adottare una strategia di coesione sociale fra noi donne per creare una rete ramificata. In questo modo potremo aggredire tutti i segmenti della vita: dalla scuola, al terzo settore, alla politica. Non possiamo disgregarci e focalizzarci solo su una cosa. Il punto è che ci sono dei campanelli d’allarme. Per esempio, non è normale che in Italia ci sia una sola amministratrice delegata di un’azienda partecipata dallo Stato. Bisogna continuare a fare passi in avanti.
Come riesci a conciliare l’impegno per l’associazione no profit WOC e l’attività di consulente e imprenditrice?
Conciliare l’azienda con l’attività di consulenza strategica e l’associazione mi ha appesantita un po’ negli ultimi tre anni. Però cerco di procedere con metodo e mantenere chiara la direzione. Quando gli impegni mi fagocitano riesco a portare avanti tutto grazie al supporto delle altre associate e degli altri associati. Attraverso la collaborazione proattiva e le partnership riusciamo ad andare avanti.
Quali sono i progetti più recenti a cui hai dato vita e quali hai in programma?
Di recente WOC è diventata partner del progetto Women in action di Life Gate e da qui a breve lanceremo il programma di iniziative che WOC realizzerà nel 2024 a sostegno di questa partnership. Come socia paritaria di Moka Music, presidente di WOC e consulente, invece, ho aderito in questi giorni al codice che il Dipartimento delle pari opportunità ha appena lanciato a supporto della maternità.
Il 7 novembre ho partecipato all’incontro “La maternità non è un’impresa” indetto dalla Ministra per la famiglia, natalità e pari opportunità Eugenia Roccella. In questa occasione è stato presentato il codice di autodisciplina delle imprese responsabili in favore della maternità e a sostegno dei percorsi di carriera delle lavoratrici madri. La mia azienda ha sottoscritto il codice e ho partecipato anche a nome dell’associazione perché mi dà la possibilità di testimoniare come ente del terzo settore.