In un’epoca di cambiamenti profondi e dove, dalla pandemia in poi, abbiamo visto la tecnologia sfrecciare veloce, proprio come una macchina in corsa che deve arrivare al traguardo, abbiamo bisogno di non smarrire il senso di quello che facciamo, e l’unicità di quello che siamo capaci di provare. Le macchine possono migliorarci la vita, ma solo se riusciamo a trovare quel punto di equilibrio tale da far restare intatta la nostra identità: quanto gli siamo vicini/lontani? Qual è la nostra risposta agli sviluppi della tecnologia? Ne abbiamo parlato con Alice Avallone, antropologa digitale

«Noi esseri umani siamo un miscuglio complesso di emozioni e di capacità
esperienziali; i computer e i dispositivi sono logica e razionalità». In queste parole apparentemente semplici, descrittive, c’è tutta la “sostanza” della differenza tra l’uomo e la macchina: l’ha scritta Alice Avallone nel suo capitolo su Feedback, libro ideato e curato da K Magazine (hub creativo e magazine online di LUZ, agenzia di Content Marketing a Milano) in cui si indagano i cambiamenti delle nostre risposte percettive in relazione ai nuovi stimoli prodotti dagli sviluppi tecnologici.

Una pubblicazione ricca di punti di vista, dati i differenti autori che si sono alternati a dare la loro interpretazione del rapporto tra esseri umani e tecnologia, indagando soprattutto su come le nostre sensazioni stiano evolvendo e come la nostra relazione con il mondo – reale e tech – si stia ridefinendo. Uno di questi punti di vista è quello di Alice Avallone, antropologa digitale direttrice dell’osservatorio “Be Unsocial” , specializzata nelle discipline di digital storytelling, data humanism e trend forecasting. Avallone fa formazione in molte scuole, tra cui la Holden di Torino, ed è ricercatrice di small data, cultural insight e trend per le aziende. Nel 2009 ha fondato il travel magazine digitale Nuok, nel 2018 ha pubblicato il primo saggio italiano sull’approccio netnografico People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale (Cesati), mentre la sua ultima pubblicazione è #Datastories. Seguire tracce umane sul digitale (Hoepli) nella collana Tracce curata da Paolo Iabichino.

In Feedback ogni capitolo è associato a una “sensazione” che si prova sulla pelle – Brividi, Sudore, Formicolii, Dolore, Innesto e Screpolamento – e nel suo (Innesto) Avallone descrive alcune “mutazioni tecnologiche” del nostro tempo. D’altronde, da diversi anni è un’attenta osservatrice delle relazioni umane, di linguaggi e comportamenti, che studia attraverso un fertilissimo incontro tra scienze sociali e…digitali.

 

Quindi Alice, come è cambiata negli ultimi anni la nostra pelle per effetto dei cambiamenti tecnologici e di una quotidianità sempre più invasa dal digitale?

Alice Avallone
Alice Avallone

Mi piace immaginare la nostra pelle come un dispositivo tecnologico che condivide informazioni attraverso stimolazioni interne ed esterne, si mette in comunicazione con altri corpi, conserva una sua memoria. Non solo: può essere personalizzato, in modo permanente o meno, muta con il passare degli anni, si impreziosisce di altra tecnologia indossabile o impiantabile. Il cambiamento sta nella nostra nuova consapevolezza di quante cose straordinarie possiamo fare con il nostro involucro, il nostro packaging. Anche Torino Spiritualità ha dedicato a questo tema la passata edizione, e l’hanno raccontata così: “Come dice bene la nota frase del poeta Paul Valèry secondo cui non ci sarebbe nulla, nell’uomo, di più profondo della pelle: è nel confine estremo che scopriamo ciò che siamo, perché è lì sulla superficie che le cose si espongono alla luce.”

 

Immaginazione, interpretazione, emotività: qual è il rapporto tra questi tratti umani e la tecnologia?

Se iniziamo a pensarci, noi esseri umani, anche noi come una tecnologia, allora non c’è partita: vinciamo noi, perché abbiamo almeno 300 mila anni di evoluzione alle spalle. Semplicemente, stiamo cercando di dare vita ad altrettante tecnologie sofisticate e, peccando un po’ di presunzione divina, le stiamo plasmando a immagine e somiglianza. Con capacità di immaginazione, di interpretazione, e di provare emozioni.

 

Tu scrivi che “La tecnologia via via contiene l’emotività, addomestica le paure e costringe il corpo”. In che senso? I social network, ad esempio, più che contenere l’emotività delle persone a volte sembrano aiutarla ad esplodere.

I social media diventano una valvola di sfogo per le persone che, come pentole a pressione, fanno uscire così i fumi di rabbia, risentimento e frustrazione. Sfogarci online attenua quella pressione. Dunque, paradossalmente, facendo strabordare parte della propria emotività, in realtà la contengono. Cambia la dimensione del pubblico: se prima potevo lamentarmi del caro bollette solo con il mio panettiere, magari davanti a un paio di clienti, oggi possono farlo davanti a una platea infinita.

Non cambia il fatto che da qualche parte dobbiamo fare i conti con i nostri sentimenti. Ma è sbagliato pensare che ci lamentiamo di più perché c’è Facebook. Come scrive Alessandro Baricco in The Game, “la rivoluzione digitale non ha cambiato noi, siamo noi che, essendo cambiati, abbiamo creato gli strumenti tecnologici che ci servivano; non siamo vittime degli smartphone, dei social network, dell’intelligenza artificiale e via dicendo, siamo noi che abbiamo voluto essere ‘umani aumentati’”. Insomma, siamo noi che avevamo bisogno di creare un modo per far uscire il vapore.

 

Come sono cambiati, negli ultimi anni – soprattutto quelli dell’accelerazione tecnologica abbinata al confinamento sociale dovuto alla pandemia – i rapporti tra esseri umani? Siamo più connessi, ma siamo sicuri di esserlo tra persone?

Le dinamiche delle relazioni – e aggiungo anche del nucleo familiare – stanno cambiando profondamente. Certo, molto può essere attribuito ai progressi tecnologici dovuti all’isolamento pandemico, ma a questo si aggiunge anche una naturale evoluzione delle norme sociali. Le persone stanno abbracciando la molteplicità e la complessità delle relazioni possibili, dentro e fuori la Rete, sfumando il confine tra cosa è online e cosa è offline.

La sociologa, psicologa e tecnologa statunitense Sherry Turkle, ben prima dell’emergenza sanitaria, aveva analizzato il tema del perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia (e sempre meno dagli altri esseri umani) con il volume Insieme ma soli. La tesi di Turkle: la tecnologia ci fa dimenticare quel che sappiamo della vita. Siamo più connessi, ma sappiamo che sono connessioni più facili, superficiali, che intimoriscono meno di un confronto vis-à-vis. La tecnologia ci permette di controllare, e controllarci.

 

Tu scrivi che “In questo momento […] siamo nel bel mezzo di una tempesta perfetta, nel punto di scontro tra due correnti che spingono l’una contro l’altra. A sinistra, guardando al passato, c’è una tecnologia visibile, esposta, fuori la pelle; a destra, guardando al futuro, ce n’è una invisibile, innestata, sotto la pelle. Noi siamo al centro, a cavallo tra la prima che rende noi esseri umani sempre più tecnologici, e la seconda, invece, che rende la tecnologia sempre più umana“. Ci spieghi in che modo prevedi che la tecnologia diventi più umana?

Le diverse intelligenze delle macchine – come quella logico-matematica, linguistica, musicale – non ci soddisfano mai fino in fondo. Perché sappiamo che, oggi, alla tecnologia manca ancora un’intelligenza artificiale emotiva, ovvero una comprensione dell’esperienza emotiva dell’altro. Sotto sotto, vorremmo che le macchine comprendessero meglio, ad esempio, l’intento dietro una nostra query, il perché.

Noi esseri umani dovremo insegnare alla tecnologia l’importanza di catturare sfumature, sottotesto e intento, dunque mescolare i risultati e presentarli all’utente in un modo che sia rilevante non solo per la sua query, ma anche per la sua persona, le sue preferenze, i suoi valori. Qualche cosa si sta muovendo in questa direzione, come nel caso dell’esperimento NeevaAI, che promette di cambiare il modo in cui le persone effettuano ricerche online, fornendo risposte sintetizzate alle domande invece di un elenco di link ed eliminando la pubblicità.

 

Con l’esplosione del fenomeno “ChatGPT” siamo nel pieno di un movimentato dibattito su rischi e opportunità dell’intelligenza artificiale e sull’impatto di una sua maggiore implementazione sul lavoro creativo. Che ne pensi?

Le nuove tecnologie, le nuove piattaforme, i nuovi strumenti ci entusiasmano e al contempo spaventano sempre. Quando fece capolino Splinder in Italia, tanti dissero “oddio, ma adesso tutti potranno scrivere in Rete, chi può dirsi ora giornalista o scrittore”. Con Instagram “oddio, tutti a fare fotografia, la fotografia è morta”. Ora con ChatGPT il tecno-allarmismo è simile, “oddio, ma adesso tutti potranno creare immagini, gli artisti sono stati defraudati”. Al netto del concreto problema del diritto d’autore da tutelare, mi concentrerei soprattutto sulle opportunità che un fenomeno come ChatGPT può portare con sé.

Penso al caso recente di Malik Afegbua, regista e artista nigeriano, che ha utilizzato il lato artistico dell’intelligenza artificiale per sfidare l’emarginazione delle persone anziane nella moda e nella società in generale. La raccolta Fashion Show For Seniors è diventata virale sui social e raffigura una sfilata di moda piena di modelli anziani che indossano interpretazioni contemporanee della moda e dello stile tradizionali africani. Ecco allora che l’intelligenza artificiale diventa democratica: permette di abbattere costi, contribuisce a nuove narrazioni, cancella stereotipi. Come abbiamo imparato nel tempo, non è mai un problema della tecnologia in sé, ma di come si usa.

 

Secondo te oggi siamo più in difficoltà con la ricerca di senso e nel trovare la nostra identità, come persone e lavoratori? La tecnologia, in questo percorso, ci aiuta o in qualche modo ci ostacola? Perché a volte sembra darci tanti mezzi, ma privarci di molti altri.

Viviamo un’interessante ambivalenza con la tecnologia. Da un lato, preferiamo una raccomandazione algoritmica rispetto a una umana quando abbiamo un’esigenza pratica, perché consideriamo il consiglio più logico, soppesato, razionale; in una parola, tagliato su misura per noi. Insomma, ci stiamo abituando a lasciare che le macchine prendano il controllo di molte nostre scelte in cambio di previsioni e personalizzazioni più accurate.

Dall’altro lato, invece, quando abbiamo a che fare con la sfera esperienziale, emotiva e identitaria, prediligiamo il confronto umano, percepito più consolatorio ed empatico. In questo senso, allora sì, la tecnologia spesso diventa un ostacolo, perché pone ulteriori filtri alla comunicazione tra due persone. Con tutta probabilità, la chiave per superare questo apparente vicolo cieco è trovare un maggiore equilibrio tra cosa la tecnologia può fare per migliorare la nostra vita, e cosa invece è superfluo farle affrontare, monitorare, calcolare per noi. Proprio in ottica di ritrovare un senso e un’identità, potremmo così riappropriarci di molte capacità umane che abbiamo delegato a macchine per pigrizia.

 

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