“Se ci guardiamo indietro, la trasformazione digitale è iniziata con il nuovo millennio, ma quando è arrivata la pandemia ci siamo resi conto che, in concreto, non si era realizzata. Oggi serve un approccio nuovo, che rimetta le persone al centro dello sviluppo”. Abbiamo chiesto ad Alessandro Rimassa, imprenditore e scrittore esperto di future of work e digital transformation, di raccontarci gli ultimi cambiamenti del mondo aziendale e del lavoro
È una figura centrale nel panorama del business attuale, che ha assorbito tutti i cambiamenti portati dalla pandemia e che ha bisogno di fare tesoro proprio di queste trasformazioni: Alessandro Rimassa, con un cv ricco di esperienze in diverse realtà come consigli di amministrazione di aziende e organizzazioni, su Linkedin si definisce esperto di future of work, education e digital transformation, imprenditore, board member e investitore. Già cofondatore e amministratore delegato di Talent Garden Innovation School (la scuola dell’innovazione e del digitale di Talent Garden) e direttore della Scuola di Management e Comunicazione dell’Istituto Europeo di Design di Milano, oggi si occupa di supportare la leadership su digital, people e business innovation e di portare i modelli di management verso un futuro ancora tutto da scrivere, ma di cui ha un’idea ben precisa e che coincide con l’intenzione di rimettere le persone al centro dello sviluppo economico e sociale.
Intenzionato dunque a tradurre la recentissima rivoluzione che ha investito il mondo dell’imprenditoria, del business e del lavoro in nuovi approcci che, innanzitutto, migliorino la vita delle persone, pensa che trasparenza, fiducia, velocità e innovazione siano i nuovi valori essenziali per affrontare le sfide contemporanee. Di recente, nell’anno del Covid, ha scritto “Company Culture, il sistema operativo che fa crescere le aziende”, apprezzato libro in cui sottolinea l’importanza della cultura aziendale e dove affronta temi come l’urgenza di sostituire regole e procedure con valori e purpose.
Di che ti sta occupando in questo momento e in che modo aiuti le aziende a crescere?
Al momento mi sto occupando di Radical HR Club, una piattaforma che mette a disposizione corsi di formazione on demand, webinar e guide dedicate agli HR utilizzabili in modo agile. L’obiettivo è quello di mettere il settore delle Risorse Umane al centro della trasformazione che oggi stanno vivendo le aziende. Se riusciamo a dare agli uffici HR nuove competenze e nuovi metodi, questi saranno i nuovi change leader che riusciranno a loro volta a mettere le persone al centro delle aziende.
La pandemia ha messo le aziende di fronte ad una svolta obbligata: quella digitale. Stanno prendendo più confidenza con la tecnologia o c’è ancora una diffusa reticenza nell’accogliere determinati cambiamenti? Quali sono i traguardi raggiunti e quelli ancora da raggiungere (con una certa urgenza)?
Se ci guardiamo indietro, la trasformazione digitale è iniziata con il nuovo millennio, ma quando è arrivata la pandemia ci siamo resi conto che, in concreto, non si era realizzata. Le aziende, d’altronde, non erano molto “funzionanti” dal punto di vista digitale: soprattutto durante il lockdown abbiamo potuto constatare quanti dipendenti, di diverse realtà, fossero sprovvisti dei mezzi tecnologici necessari a portare il lavoro a casa. Sotto alcuni punti di vista siamo rimasti indietro di un’intera epoca.
Durante questo periodo, poi, abbiamo scoperto anche un’altra cosa, e cioè che la trasformazione digitale non dipende dagli strumenti tecnologici che vengono utilizzati, ma dalle persone, dalla loro capacità di utilizzare questi strumenti ma anche da quella di immaginare processi e modi di lavorare diversi (proprio grazie alla tecnologia). Attuare una digital transformation, infatti, non vuol dire fare le stesse cose che facevamo prima con strumenti più tecnologici, ma cambiare proprio l’approccio. Sotto questo punto di vista, purtroppo, siamo ancora molto indietro, ma abbiamo comunque intrapreso una strada che non possiamo più abbandonare.
Tra i cambiamenti che sono conseguenza della crisi sanitaria, quali secondo te hanno segnato la vera svolta nel mondo del lavoro e qual è l’eredità più positiva del Covid che riusciremo a portare nel futuro?
Mi auguro che ci sarà la possibilità, come anticipato, di mettere le persone al centro dello sviluppo delle aziende. Come? Tramite una vera, reale e sempre migliore implementazione del vero hybrid working e smart working, in modo tale che i dipendenti possano vedere accolte e rispettate le loro esigenze in un modo che non può – e non deve – andare a discapito di performance e produttività. Al contrario, quest’ultima aumenterà perché un dipendente più felice è un lavoratore che rende meglio, sempre.
Dobbiamo tornare più “proprietari” della nostra vita. In questo senso, faccio sempre un esempio molto banale: perché una madre o un padre non possono andare alla recita del proprio figlio/a alle quattro del pomeriggio e magari poi rimettersi a lavorare un paio d’ore la sera? Rispettare le esigenze delle persone le avvicina all’azienda e le rende più capaci e motivate a raggiungere gli obiettivi. Una cosa è certa: le aziende che non riusciranno ad essere più flessibili perderanno le persone migliori.
Tra la metà e la fine di ottobre tutti i dipendenti pubblici torneranno a lavorare in presenza (con green pass), come disposto dal ministro Renato Brunetta. Secondo te quali sono gli ostacoli per degli uffici pubblici più smart e flessibili, e di quali interventi necessita la PA per la sua svolta digitale?
Brunetta sul lavoro agile ha sia torto che ragione: è sbagliato il suo approccio perché un ministro deve saper prevedere il futuro e impostare la strada per raggiungerlo, ma nel concreto comprendo le sue affermazioni perché i dipendenti pubblici nell’ultimo anno non hanno fatto smart working, hanno fatto una “vacanza pagata”. Banalmente perché, nella maggior parte, non sono dotati di computer portatili. A mio parere il ministro avrebbe dovuto ammettere che il futuro è dello smart working e che, nonostante al momento non vi siano i mezzi per applicarlo, vede un futuro in cui anche i dipendenti pubblici potranno lavorare altrove. Deve esserci una progettualità e l’intenzione di investire sia in tecnologia che in formazione del personale: l’uno senza l’altro sono inutili.
Inoltre, devono essere rivisti i criteri con cui la PA oggi assume, in modo tale da valorizzare le competenze del singolo: magari sei specializzato in comunicazione ma arrivi in un’amministrazione e ti ritrovi a fare tutt’altro. Questa è follia, oltre che spreco di risorse: le persone davvero competenti non vogliono iscriversi ad un concorso per poi ritrovarsi a trattare una materia diversa dalla loro.
Nel tuo ultimo libro hai affrontato un tema che in quest’ultimo anno e mezzo ha acquisito sempre maggior rilievo: la cultura aziendale e l’importanza di mettere al centro le persone. Quali sono i vantaggi concreti per un’azienda che adotta questo approccio?
Se ascolti le persone, ti occupi di loro, capisci cosa vogliono, le aiuti a lavorare meglio, quelle persone saranno il tuo investimento migliore. La produttività di un’azienda dipende dalla produttività delle persone che ci lavorano. La cultura aziendale, intesa come “sistema operativo” che regola il funzionamento di un’azienda, non consiste in un set di norme da rispettare, ma lascia le persone libere di sviluppare le proprie competenze in modo rapido.
Parlando dei “comandanti del futuro”, quindi di imprenditori e manager che guideranno quelle trasformazioni e che disegneranno i nuovi (speriamo) modelli di management, quale dovrà essere il loro stile di gestione? E cosa si intende per leadership empatica?
In un certo qual modo, significa fare il mestiere del designer: se questo deve disegnare una sedia, non è l’estetica a interessargli – o almeno, non solo – ma la comodità di chi deve sedersi, in base all’utilizzo che deve farne. Tutto sta quindi, in sostanza, nel mettersi nei panni delle persone: è questa la leadership empatica. Come leader, devi saper indirizzare, consigliare, motivare e guidare le persone che lavorano per te. L’ascolto deve essere il punto di partenza.
Sei anche il co-autore di Generazione mille euro, libro da cui è stato tratto l’omonimo film, una sorta di manifesto generazionale dei giovani precari, malpagati e frustrati. Sono passati 12 anni dalla sua uscita, oggi la situazione è migliorata per loro?
Assolutamente sì: oggi le persone valide, con voglia di crescere e costruire, hanno un sacco di possibilità, ma devono andarsele a cercare. La cosa più importante, però, non è solo fare il proprio lavoro, e farlo bene: bisogna continuamente lavorare su se stessi.