Economia in calo, inflazione, caro-bollette, ma soprattutto incertezza, denatalità ed emigrazione all’estero. Sono i motivi per cui in Italia si aprono sempre meno startup, soprattutto nei settori alimentare, agricolo ed energetico, ma ci sono esempi di giovani che resistono puntando su tecnologia e abbigliamento
Irpef e contributi ridotti, detrazioni, ma anche zero Iva o compensazione della stessa, oltre a modalità semplificate per pagare le tasse. Le condizioni fiscali vantaggiose per i giovani che aprono o investono in startup, in Italia, non mancano. D’altronde si tratta delle imprese spesso più innovative e tecnologiche, con manager dinamici e molto attenti ai temi della sostenibilità. Per lo Stato agevolare la loro creazione è quasi un dovere morale.
Eppure negli ultimi anni il numero di queste attività, che coinvolgono prima di tutto gli under 40, sta calando sempre di più. Secondo lo studio “Le imprese nate nel 2022 e il contributo economico delle start-up”, realizzato da Cerved, nel 2022 sono nate in Italia solo 89.192 nuove giovani imprese, il 10,6% in meno (10.587) rispetto al 2021 e il 5,9% in meno rispetto al 2019.
È proprio dal 2019 che si è iniziato a invertire un trend positivo che durava dal 2013 e quella che era una crescita annuale più o meno costante del numero di startup aperte è diventata un numero sempre più in negativo. Evidentemente, quindi, qualcosa non torna e i motivi di questa difficoltà non possono essere identificati solo in cause economiche circostanziate, come la crisi dovuta prima al Covid e poi all’inflazione e al caro-energia. Quali sono, allora, le ragioni strutturali che si nascondono dietro a questo fenomeno?
I motivi strutturali dietro al calo delle startup
É principalmente nel 2022, secondo Cerved, che si sono registrati una serie di fattori che hanno contribuito al calo: il rallentamento dell’economia e l’aumento dei prezzi e dei tassi d’interesse. Lo scorso anno il Pil è sì cresciuto del 3,9%, ma veniva da un balzo post-Covid al 6,7%, mentre l’inflazione è arrivata in autunno a un picco a doppia cifra, con il prezzo di gas e luce anche triplicato in un anno e mezzo. Le difficoltà economiche hanno quindi aumentato l’incertezza sul futuro, spingendo meno giovani ad avviare un’attività per definizione rischiosa.
Ma sono anche i fenomeni strutturali ad accelerare senza sosta, a partire dalla denatalità, che abbatte il numero assoluto di giovani nel Paese. Nel 2022 il numero di nascite per mille persone in Italia è sceso a 6,77, prima del nuovo millennio era superiore a 10. C’è poi il dramma dell’emigrazione all’estero. Dal 2016 al 2020 sono oltre 413mila i giovani tra i 18 e i 39 anni che hanno lasciato l’Italia per lavoro, studio o per provare a costruirsi un futuro migliore fuori dai nostri confini. In generale, poi, dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87%.
Le conseguenze sull’economia italiana
L’effetto di questo crollo delle startup sull’economia nazionale non può che essere pesante. Negli ultimi 15 anni, infatti, le giovani imprese hanno sempre garantito un margine netto di centinaia di migliaia di addetti, persino nel 2020 (quando, nonostante la prima ondata di Covid, il saldo fu positivo, con 185mila occupati in più). Secondo Cerved il calo delle startup nel 2022 potrebbe significare quest’anno oltre 27mila lavoratori in meno e 2,5 miliardi di euro di fatturato non creato.
A diminuire, in particolare, sono le newco delle utility, seguite da quelle alimentari e agricole. Le nuove startup di chi prova a industriarsi per la gestione dei rifiuti sono poi dimezzate (passando da 225 nel 2021 a 108 lo scorso anno), così come quelle per i prodotti da forno e pasticceria industriale (da 457 a 251).
Proprio in tal senso, solo due settimane fa ha fatto discutere il caso di Ilaria Carone, la giovanissima pasticcera di Bari (24 anni) che ha chiuso dopo 5 mesi la sua nota pasticceria in casa, visti i costi in aumento e gli adempimenti burocratici (non indifferenti nel settore alimentare), che le avrebbero fatto azzerare i guadagni.
I giovani che resistono, nonostante tutto
C’è, però, chi resiste. Tra i settori che vanno forte, trainati anche dalla domanda interna generata dal Pnrr e dai fondi europei, ci sono le tecnologie dei pagamenti digitali e delle telecomunicazioni, il facility management, la cantieristica e gli impianti per l’edilizia, ma anche i servizi e l’abbigliamento.
Il 2022, ad esempio, è stato l’anno di consacrazione di Scalapay, la fintech italiana fondata nel 2019 da Simone Mancini e Johnny Mitrevski che permette di acquistare a rate e senza interessi con varie formule di pagamento digitale. I suoi successi le hanno permesso, lo scorso anno, di ottenere un finanziamento da quasi 500 milioni di dollari.
Tra i ragazzi e le ragazze under 35, poi, crescono quelli che, nonostante le difficoltà, vogliono investire creando nuovi concept-brand di vestiti, sfruttando i social network e puntando su etica e innovazione. È il caso di Rachele Didero e Federica Busani, che hanno fondato nel 2021 Cap_able, una startup di fashion tech che offre prodotti di design tecnologico. La prima collezione, chiamata Manifesto, è fatta di abiti che, senza coprire i volti, schermano dal riconoscimento facciale grazie a un tessuto hi-tech.
I vantaggi fiscali per chi apre o investe in una startup
Sono proprio gli under 35 ad usufruire dei maggiori vantaggi fiscali. Ad esempio per le ditte individuali con regime forfettario, per i primi 5 anni dopo l’apertura della partita Iva si paga solo il 5% di Irpef, i contributi sono ridotti del 35% e c’è non Iva da versare.
Ci sono poi le startup innovative, Srl o Spa con ottimi profitti per lo sviluppo di prodotti e servizi altamente tecnologici. Non pagano imposte di bollo e il diritto annuale alla Camera di Commercio, oltre a poter chiedere rimborsi Iva senza garanzia. Per chi investe in queste società c’è una detrazione Irpef del 30% dell’importo conferito se la partecipazione vale per 3 anni, con sconto che può arrivare fino a 1 milione di euro.
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