L’Industria 4.0 è un modello produttivo che sta trovando applicazione nel mondo aziendale e promette di farlo in misura sempre maggiore in futuro, puntando in maniera dirompente sulla digitalizzazione dei processi e spingendo però a chiedersi come si possano coniugare le esigenze sociali e i rischi climatici con la produttività. Una soluzione a questo dilemma è fornita dai concetti Society 5.0 e Factory 5.0: ma in cosa consistono?
La Factory 5.0 è un modello organizzativo incentrato su un tipo di produzione che tiene conto delle esigenze specifiche dei consumatori, della società e dell’ormai imprescindibile tematica della sostenibilità.
Il modello 4.0, che finora ha puntato in maniera dirompente sulla digitalizzazione dei processi, ci spinge ormai a chiederci come si possa riabilitare il ruolo del dipendente, restituendo a quest’ultimo un maggiore ruolo rispetto alle direzioni che si sono intraprese, senza contemporaneamente sacrificare l’attenzione alle tematiche ambientali e collettive e alle necessità degli utenti.
Produttività ed efficienza: i pilastri dell’Industria 4.0
Complessi sistemi digitali in grado di comunicare reciprocamente e svolgere un vasto numero di attività, intelligenze artificiali capaci di funzioni proprie della mente umana e di prevedere gli schemi di lavoro, ottimizzando la produttività e minimizzando gli errori e gli sprechi. Potrebbe sembrare uno scenario sbucato fuori dal miglior racconto di fantascienza di Isaac Asimov, ma così non è: sono queste le possibilità aperte negli ultimi anni dall’Industria 4.0, che reca con sé l’eredità consegnataci da quella che ormai siamo soliti definire quarta rivoluzione industriale.
L’espressione Industria 4.0 è stata utilizzata per la prima volta da Henning Kagermann, Wolf-Dieter Lukas e Wolfgang Wahlster durante la Fiera di Hanover del 2011, per indicare un insieme di iniziative finalizzate all’ammodernamento del sistema produttivo – in quel frangente, tedesco. Il concetto ha tuttavia trovato diffusa applicazione all’interno delle dinamiche economiche e produttive globali: già nel gennaio 2016, la ricerca The Future of the Jobs presentata presso il World Economic Forum rivelava la sempre maggiore dipendenza del mondo professionale dai fattori tecnologici, e insieme, il rischio della perdita di 5,1 milioni di posti di lavoro a fronte della creazione di 2 milioni di nuove posizioni.
L’Industria 4.0 ha comportato una spinta verso l’introduzione di tecnologie all’avanguardia, come intelligenze artificiali appositamente addestrate tramite metodi di machine learning – con cui le macchine si fanno autonome grazie all’apprendimento di situazioni da risolvere partendo da una banca dati -, sistemi cloud, la Big Data Analysis e la cyber security. Insomma, la comunicazione tra macchine all’interno di una rete industriale hi-tech (la cosiddetta Internet of Things, IoT) diventa un vettore attraverso cui rendere la produzione autosufficiente, flessibile ed efficiente, allo scopo di ottimizzare il rendimento e l’assunzione di decisioni più mirate. Nel fare ciò, tuttavia, questo modello ha sacrificato una serie di fattori, tra cui la variabile umana, avente una parte decisiva all’interno dei processi aziendali, l’adattabilità e la resilienza delle catene di produzione – su cui la pandemia di Covid-19 ha fortemente richiamato l’attenzione -, ponendo interrogativi anche sulla necessità di introdurre forme di economia sostenibili e circolari in cui i componenti dei prodotti possano essere riutilizzati e ri-proposti in forme alternative. Sono proprio questi, secondo le indicazioni della Commissione Europea, alcuni degli aspetti che dovranno essere posti alla base della riprogrammazione delle catene di valore nel prossimo futuro.
Il ruolo del dipendente e il rapporto tra produttività e società
É un fatto ormai assodato che l’Industria 4.0 abbia sollevato non pochi dubbi e perplessità in merito al ruolo del dipendente all’interno dell’azienda. Il modello 4.0 ha spinto a ritenere che il lavoratore non costituisca più il centro del sistema produttivo: partecipando in misura minore sul piano pratico, manuale, viene messo in discussione lo stesso ruolo della risorsa all’interno della fabbrica, al fulcro della cui catena si colloca una produzione efficiente, dominabile e ubiqua.
In tale contesto, sono le macchine, non più il dipendente – come invece si è verificato per molto tempo – la reale fonte di valore, per via della loro capacità di sostituire intere attività senza dover fare i conti con determinati limiti umani: energie insufficienti, impossibilità a svolgere un dato lavoro in maniera continuativa, esigenze personali o attinenti alla salute che costringono il dipendente ad assentarsi. Al netto di ciò, ad ogni modo, si devono considerare le ripercussioni positive che le soluzioni 4.0 comportano in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui i dati dell’INAIL parlano chiaramente.
Ad ogni modo, sul nuovo ruolo delle macchine in relazione ai connaturati limiti delle prestazioni umane c’è poco da poter dibattere: si tratta di una trasformazione non reversibile. Va però ricordato che, nonostante alcune mansioni tradizionalmente affidate ai dipendenti siano state rimpiazzate da sistemi altamente tecnologizzati, questi ultimi necessitano dei primi per essere messi in uso: un robot non può funzionare senza l’intervento di un lavoratore qualificato, e ci sono azioni che potrebbero comunque sfuggire alla tecnologia. Vista dalla prospettiva del dipendente, si tratta di un’industria che richiede competenze nuove e aggiornate, tra cui spiccano capacità di pianificazione e coordinamento, la collaborazione strategica uomo-macchina, la gestione smart e la Data Analysis.
Quello che emerge dal quadro dell’Industria 4.0, tuttavia, è un forte focus sulla dimensione digitale e tecnologica, in cui l’intelligenza artificiale, la robotica e l’IoT si pongono come pilastri irrinunciabili. Enfatizzando i concetti di produttività e di fabbrica-fisica-e-virtuale, a vedersi trascurata è stata la variabile sociologica, la possibilità di capire come la tecnologia a nostra disposizione possa aiutare le persone a soddisfare i propri bisogni ed essere felici. A tal proposito e in senso più ampio, si parla di Società 5.0 – termine coniato nel 2016 dalla Keidanren, la più importante federazione imprenditoriale giapponese – per concettualizzare un futuro in cui la tecnologia può contribuire ad una società più equa, inclusiva e sostenibile, e di Industria 5.0, per uno in cui il patrimonio informativo messo a disposizione dalle macchine può essere utilizzato per reagire al cambiamento in maniera critica, creativa e innovativa, consentendo al lavoratore di partecipare maggiormente agli scenari predittivi resi possibili dai dati e migliorare la qualità della vita. La priorità, insomma, diventa (ri)mettere al centro l’importanza del benessere tanto collettivo (la società) quanto individuale (il dipendente, l’essere umano, il consumatore): in questo quadro, se la Società 5.0 rappresenta la filosofia di partenza, l’Industria 5.0 è il modo in cui quell’idea può essere tradotta nella quotidianità.
La “rivoluzione culturale” dell’Industria 5.0
Quella dell’Industria 5.0 non è in realtà una rivoluzione tecnologica, ma piuttosto culturale: essa non vuole proporsi come paradigma alternativo al modello 4.0, né come una minaccia per quest’ultimo, sicché si mostra come esito di una riflessione sulla direzione che ha preso il ciclo produttivo nel quale siamo immersi, per rendere le tecnologie esistenti un supporto al benessere del singolo e della collettività e affrontare i cambiamenti nel mondo.
L’Industria 5.0 è complementare al modello precedente, ne utilizza gli strumenti messi a disposizione in un’ottica collaborativa tra uomo e macchina – si parla di “cobot”, ad esempio, per indicare una tecnologia su cui puntano fortemente aziende come Universal Robots, in cui un robot lavora in sinergia con gli esseri umani reagendo alle istruzioni e alle azioni di questi ultimi. Tenendo conto di necessità emergenti e da tempo appurate, tra le quali, il rischio di dover affrontare cambiamenti dirompenti come pandemie, guerre commerciali o cambiamenti climatici, il modello 5.0 considera il dato e le tecnologie predittive risorse che restituiscono una nuova capacità progettuale all’individuo. Il sistema produttivo 5.0, rispondendo ai rischi e inseguendo le opportunità, punterebbe a svolgere un ruolo attivo per la società, intervenendo sulle questioni socio-ambientali lasciate irrisolte dalla quarta rivoluzione industriale in un’ottica human-centric, in cui l’uomo esercita una maggiore responsabilità, rispetto al passato, nell’affrontare esigenze presenti e sfide future, e dove tecnologie altamente avanzate (intelligenza artificiale, Internet degli oggetti, periferiche cloud, tool di cybersicurezza) sono risorse con le quali intervenire consapevolmente sul corso delle cose.
Ma la Factory 5.0 non è solo questo: essa vuole rispondere anche alla questione del consumo individuale, considerata la sempre maggiore richiesta di personalizzazione dei prodotti resa possibile da prototipizzazioni accurate, componenti realizzati ad hoc e prodotti progettati a partire dalle preferenze degli utenti, così come alla problematica ambientale. Laddove la sostenibilità delle soluzioni è diventata una delle aspettative degli stakeholder aziendali, come conseguenza della consapevolezza che si sta sviluppando nei confronti dei rischi cui la crisi climatica ci pone innanzi, un’industria più sostenibile è più attraente per investitori, dipendenti e consumatori, e può diventare tale intraprendendo la strada di un’economia ciclica che minimizzi gli scarti e consenta l’affrancamento, nel tempo, dalle dipendenze negli approvvigionamenti.
In un momento in cui stanno diventando evidenti le criticità di un contesto produttivo prospettato, per la prima volta, in quel 2011 ad Hanover, l’Industria 5.0 è l’alternativa in grado di rispondere alle richieste – forse finora non sufficientemente ascoltate – di una società che non può intendersi scissa dal sistema che la alimenta. Una società di questo tipo è quella in cui il (o la) dipendente, grazie ad una collaborazione più profonda con la tecnologia – capace di minimizzare, altresì, gli incidenti sul lavoro e la bassa inclusività, come evidenziano le innovazioni illustrate durante il recente Forum “Made in Inail” -, non si percepisce come un semplice “braccio che fa funzionare la macchina”, ma come presenza armonizzata e tutelata all’interno del sistema di cui fa parte.