«Dopo aver partorito ho dovuto rallentare molto con il lavoro e ripartire è stato difficile. Nel frattempo, era finita anche la relazione con il padre di mia figlia. Mi sono ritrovata a dover consolidare lo studio che era stato aperto da poco, portare avanti le mie mansioni di madre senza dei nonni su cui poter contare e dovevo incastrare tutto il lavoro in sei ore. Potevo contare su una tata ma non potevo comunque lasciare tutto. Non solo, in quel periodo ho anche avuto una depressione post-parto e all’inizio non me ne ero resa conto, è stata molto dura guarire e rielaborare tutto». A dirlo è Lucille Ninivaggi, tatuatrice, influencer, mamma, creativa, imprenditrice e fondatrice di Roots Tattoo Studio.
In Italia solo il 55,5% delle donne con figli sotto i 6 anni lavora, contro il 76,6% delle donne senza figli. A riportarlo è l’ISTAT. La cultura lavorativa italiana, spesso poco flessibile, costringe molte donne a scegliere tra famiglia e carriera.
La mancanza di politiche di supporto adeguate, come asili nido accessibili o congedi parentali retribuiti equamente, penalizza le madri italiane. In paesi come la Svezia, il tasso di occupazione femminile raggiunge il 78%, grazie a sistemi di welfare avanzati (fonte: OECD).
Il 20% delle donne italiane lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio (fonte: ANSA). Questo dato riflette una società che non supporta adeguatamente le donne nel bilanciare i loro ruoli.
Il confronto con altri paesi evidenzia l’urgenza di un cambio di paradigma in Italia. Mentre in Germania il part-time flessibile ha permesso a molte madri di rimanere nel mercato del lavoro (fonte: OECD), in Italia la pressione fiscale e la precarietà scoraggiano l’autonomia economica.
Ci siamo confrontati con la fondatrice di Roots Tattoo Studio Lucille Ninivaggi su temi come l’equilibrio vita-lavoro per una madre imprenditrice in una città come Milano, ma anche sulle difficoltà da parte dello Stato di sostenere le madri single e su come la partita IVA non sia sempre sinonimo di libertà.
Quando è iniziata la tua esperienza lavorativa come imprenditrice? Come sei riuscita a bilanciare la carriera con l’essere madre?
Ho lavorato per circa 15 anni nel mondo della moda, come ufficio stile. A mio avviso era un ambiente richiedente in modo sbagliato e ho cominciato a soffrirne. Prima delle persone c’era il brand e non mi identificavo con questi valori e anche i miei collaboratori e le mie collaboratrici soffrivano per lo stesso motivo. Io provengo da una famiglia umile e lo stipendio che avevo mi permetteva di vivere in una bella casa in affitto a Milano, concedermi qualche sfizio come uscire a mangiare ogni tanto, ma non era più quello che desideravo.
Ho pensato che ricevere la liquidazione mi avrebbe permesso di dedicarmi ad altro nel frattempo. Proprio in quel periodo, in occasione del mio compleanno, un gruppo di amici mi regalò una macchinetta per fare i tatuaggi, sapendo della mia passione e da quel giorno intrapresi la strada che sto tuttora percorrendo. Ho come avuto un’illuminazione. Era quello che non solo volevo fare, ma sentivo era giusto fare. Così ho iniziato a costruire un percorso che mi assomigliasse. Mi sono sempre tatuata per ricordarmi da dove venivo e quali erano le mie sofferenze. Consideravo i tatuaggi come dei post-it sulla pelle, li ho chiamati gentili perché se affrontiamo le sofferenze, che tutti inevitabilmente viviamo, e le accettiamo è possibile trasformarle in qualcosa di gentile nei nostri riguardi.
Ho aperto uno studio e dopo qualche anno mi sono ritrovata a doverlo chiudere per poi ripartire da zero quando ero incinta di mia figlia. È stata la mia terza ripartenza nel lavoro, mi ha richiesto molta energia.
Cosa significa essere una libera professionista con una propria attività a Milano e al tempo stesso portare avanti una famiglia?
Essere libera professionista a volte ti permette di essere libera nella gestione del tempo e di altre attività, ma dall’altro lato si tratta di una libertà relativa. Ad esempio, io nel mio studio ho tutelato l’aria che si respira, evitando di creare o alimentare un ambiente di lavoro tossico.
Il lavoro occupa la maggior parte del nostro tempo. Il primo anno dopo l’inizio del Covid ero incinta e mia figlia Futura all’inizio aveva una malformazione, che ha reso necessaria un’operazione.
Per questo motivo dopo aver partorito ho dovuto rallentare molto con il lavoro e ripartire è stato difficile. Nel frattempo era finita anche la relazione con il padre di mia figlia. Mi sono ritrovata a dover consolidare lo studio che era stato aperto da poco, portare avanti le mie mansioni di madre senza dei nonni su cui poter contare e dovevo incastrare tutto il lavoro in sei ore. Potevo contare su una tata, ma non potevo comunque lasciare tutto. Non solo, in quel periodo ho anche avuto una depressione post-parto e all’inizio non me ne ero resa conto. È stata molto dura guarire e rielaborare.
Tornando al discorso della partita IVA, è complesso gestire delle tasse e riuscire a condurre una vita sostenibile, c’è da pensare alla pensione e a tratti sono scoraggiata. Sono una madre single con una bambina e vivo momenti di paura e fragilità come tutte le persone con figli o senza.
Come è possibile trovare l’equilibrio necessario per coltivare i propri sogni e renderli sostenibili anche dal punto di vista economico?
Ho imparato dai miei errori che i sogni sono importanti. Non bisogna mai fermarsi, se li vuoi portare avanti. C’è da trovare il modo affinché siano anche remunerativi, devi essere un buon motore tu. Non ti mantengono i sogni. Però sono anche fan di chi ha un sogno e ha paura di realizzarlo. Sprono le persone a mettersi in discussione. È bello fare un salto nel buio e riscrivere la propria storia da capo. Può essere sia stimolante sia sconfortante, come anche il lavoro a tratti. Ci sono lavori con più responsabilità di altri, ma tutti a loro modo possono influire sulla vita delle persone coinvolte direttamente o indirettamente. Tutti noi abbiamo un forte ruolo nella società anche se siamo in un momento storico difficile.
In Italia il tasso di occupazione femminile è inferiore alla media europea, con un divario di genere più marcato in presenza di figli. Culturalmente, infatti, siamo abituati e abituate a pensare e a credere che una donna con ambizioni lavorative dovrà in qualche modo sacrificarsi se desidera anche costruire una famiglia. Non abbiamo molti strumenti o esempi che ci mostrino il contrario.
Il momento perfetto non esiste, così come non esistono il fidanzato perfetto, il lavoro perfetto, i soldi o la casa, altrimenti il rischio è quello di rimanere immobili. Se io potessi me ne andrei via domani. Ma ho una figlia e non posso. Vorrei che lei crescesse altrove. Ora che lei sarà grande spero ci sarà un cambio generazionale. Sono preoccupata per come sta andando l’economia, per le guerre e mi auguro sia un brutto periodo di passaggio quello che stiamo vivendo.
Molte donne sono in una relazione che non funziona perché non sanno come rendersi autonome. I soldi stanziati dallo Stato per una madre single ogni mese non sono spesso sufficienti a contribuire in maniera concreta alle spese che si hanno.
In che modo la gravidanza può essere considerata un tabù? E come è possibile farsi spazio nel mondo lavorativo e affermarsi senza emulare presunti modelli maschili vincenti? Ovvero, come si può mostrandosi vulnerabili e coltivando il proprio lato femminile essere anche un esempio di forza e successo?
Quello della gravidanza è un tabù. Non si parla realisticamente dei problemi che incontreranno la singola persona e la coppia, correndo così il rischio di vivere una situazione come la mia, ovverosia di ritrovarsi sole e senza il sostegno dei nonni, per esempio. Così la donna finisce con l’essere quella che si sacrifica per la famiglia. Nulla è impossibile, ma ciò non vuol dire che non sia impegnativo. Mia figlia ora ha tre anni, parla e giochiamo insieme, ma per arrivare a questo punto ci sono voluti mesi e mesi, anni appunto.
A tratti è stata così dura che mi sono chiesta perché lo stavo facendo, poi mi rendo conto che la vita mi ha dotata di una forza tale per cui riesco sempre a rilanciare. Il punto è che non c’è una madre che non abbia delle crisi quando ha un bambino neonato. Solo che non se ne parla, non si dicono queste cose. Se tu in mezzo a 50 donne, madri, condividi questo tuo malessere, in 40 ti risponderanno di aver detto, fatto o provato lo stesso. Non parlandone non validiamo questo sentire. Il problema è anche della scuola: mancano un’educazione affettiva e sessuale, di cui c’è bisogno per evitare fenomeni come il bullismo.
Forse per la prima volta ho veramente paura e faccio fatica a vedere un futuro roseo. Però lotto ogni giorno, porto a termine nel mio piccolo una giornata decorosa. Cerco di far star bene le persone che lavorano con me e quelle che incontro e che si rivolgono a me con fiducia.
Possiamo dire che il lavoro può diventare un mezzo per incoraggiare altre persone.
Io racconto le storie degli altri e nel mio piccolo è sempre stato un modo per aiutarli. Quando tatuo c’è chi piange, chi si commuove, c’è una condivisione umana potente. A un certo punto mi sono detta che volevo fare qualcosa di più. Così ho deciso di iniziare dal coaching e mi sono iscritta una scuola apposta. Ci provo come ho fatto con il tatuaggio. Mi piacerebbe poi rivolgermi a un pubblico femminile, dato che sono dodici anni che ascolto le storie delle donne. La sento proprio una cosa mia questa di esserci per gli altri, incoraggiandoli, motivandoli.
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