Gli italiani si vantano continuamente di vivere in un paese che detiene gran parte del patrimonio artistico mondiale. Ma gli investimenti nella cultura sono ridicoli rispetto alla media dei paesi europei e i lavoratori del settore sono l’ultima ruota del carro nel mercato del lavoro, tra salari miseri e scetticismo generalizzato.

Nel lontano 2010, l’allora ministro dell’Economia del governo Berlusconi Giulio Tremonti rispondeva al ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, che chiedeva più investimenti nella cultura, che “non è che la gente la cultura se la mangia”. Parole che, con uno strano “effetto Mandela”, nella memoria collettiva sono diventate “con la cultura non si mangia”.

Il motto tremontiano (che il diretto interessato proprio quest’anno ha smentito di aver mai pronunciato) è diventato un simbolo, un facile vessillo intorno al quale si sono radunate le opposizioni di sinistra, sostenitrici di tesi differenti riguardo l’attenzione che dovrebbe essere data alla cultura. Dario Franceschini, ministro della Cultura dal 2014 fino ad oggi, lo ha usato persino come titolo di un suo libro, aggiungendo solo un punto di domanda.

Partiamo proprio da questo interrogativo: con la cultura si mangia? E aggiungiamone un altro paio: l’Italia, paese che detiene il maggior numero di siti patrimoni Unesco e il cui Pil è composto per il 6,4% dagli introiti del turismo, che valore dà al settore culturale? E ai suoi lavoratori?

 

Gli occupati nella cultura

 

La risposta, prevedibilmente, è scoraggiante: secondo un’indagine Eurostat, in Italia è impiegato nella cultura solo il 3,5% della popolazione (circa 771,3 mila persone). Sono scrittori, architetti, musicisti, attori, ballerini, bibliotecari, grafici. La pandemia, come sappiamo, ha devastato il settore culturale (a livello europeo si è assistito a una contrazione da 7,36 a 7,14 milioni di impiegati) e in particolare l’Italia, nel biennio 2020-2021, ha visto un preoccupante calo di lavoratori del comparto, che prima del 2020 erano circa 834,5 mila.

Parlando di investimenti nella cultura, secondo l’Istat l’Italia spende nei servizi culturali (compresa la tutela e la valorizzazione del suo patrimonio) circa 5,1 miliardi di euro. Per fare un paragone, la Francia e la Germania spendono rispettivamente 14,8 e 13,5 miliardi.

Quindi non solo in Italia con la cultura non si mangia, ma nemmeno si fa mangiare: chi riesce ad avere un impiego nel settore culturale deve fare i conti con retribuzioni tra le più basse di tutto il mercato del lavoro. Secondo il Report 2021 dell’Osservatorio JobPricing, per un lavoro a tempo pieno il salario medio è poco più di 1.300 euro al mese (un informatico o un ingegnere della stessa fascia d’età e a pari ore di lavoro guadagna in media 1.800 euro). Senza contare la giungla di stage non pagati, contratti part-time e lavori in cui si promette “visibilità”.

È uno dei tanti paradossi di questo strano paese: in Italia, come ha ben scritto l’economista e consulente aziendale Pompeo Locatelli, “la cultura continua a rimanere la grande trascurata. Nell’agenda della politica non trova proprio spazio, […] ma è miope ritenerla una questione marginale. Non vi è emergenza che giustifichi l’assenza di investimenti nella cultura. Vale per il pubblico. E vale per il privato. Ciò che è bello è virtuoso. E soprattutto genera profitto”.

 

“Ce lo chiede il mercato”

 

Eppure si va diffondendo sempre più pericolosamente l’idea che, per l’economia di un sistema paese, i lavori (così come gli investimenti) nel settore cultura siano meno utili di quelli tecnici; che intraprendere un percorso di studi umanistico e non scientifico sia una perdita di tempo; che, in pratica, bisogna ascoltare “cosa ci chiede il mercato” per scegliere il nostro futuro professionale.

La cultura, insomma, può permettersi di essere derubricata a semplice hobby, dato che il profitto sta da un’altra parte. Non è una tendenza figlia dei tempi recenti: un genitore sarebbe molto più felice di sapere che i figli sono iscritti a ingegneria piuttosto che a lettere, e quasi tutti i giovani italiani che hanno un lavoro come grafico, social media manager, illustratore, attore, ballerino, fumettista, combattono ogni giorno lo scetticismo che aleggia intorno a questi mestieri. E sanno che possono permettersi meno di tutti i loro coetanei di sbagliare: mentre un incidente di percorso, in altri settori, è considerato accettabile, gli “artisti” sanno che al primo cenno di cedimento dovranno fare i conti con i vari “te l’avevo detto” che volteggiano come avvoltoi sulle loro teste.

 

Scienza vs Cultura

 

È pur vero, però, che le discipline artistiche e umanistiche, con una percentuale del 20%, sono le più diffuse tra gli indirizzi scelti dalle matricole universitarie, secondo quanto si legge nell’ultimo report di Almalaurea. Ed è altrettanto vero che l’Italia è in difetto, rispetto agli altri paesi europei, per numero di laureati nelle discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica): insomma, mancano i tecnici, che sono anche i più ricercati dalle aziende, nonché indispensabili per la necessaria transizione digitale.

Questi dati, però, vanno confrontati con quelli relativi all’occupazione in ambito culturale. È lì che viene fuori la discrepanza: sempre secondo Almalaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale soltanto il 77,8% dei laureati in discipline umanistiche ha un’occupazione, contro le percentuali ben più alte di coloro che decidono di impegnarsi nello studio dell’Informatica e delle tecnologie ICT (97,2%), dell’Ingegneria Industriale, dell’Informazione (96,4%) e dell’Economia (91,8%).

Se volessimo banalizzarla, liquideremmo la questione con un semplice “le materie umanistiche non hanno sbocchi professionali e non generano profitto”, quando invece semplicemente non è così: generano profitto eccome, e sono una componente essenziale anche per lo sviluppo tecnologico e digitale. Solo per citare qualche esempio:

– Il Mit di Boston ha dovuto assumere un gruppo di filosofi per condurre una ricerca sulle automobili autoguidate per creare delle categorie etiche che fossero una base per la programmazione dei comportamenti dell’auto.

– Le varie ricostruzioni storiche in realtà virtuale su cui si sta basando la sperimentazione su un nuovo approccio didattico non potrebbero esistere senza un connubio tra competenze umanistiche e tecnologiche.

– Nello sviluppo di nuove tecnologie mediche, non può non trovare posto uno studio approfondito della psicologia umana e dell’etica.

– E non si può non tenere conto del lavoro artistico-creativo di sceneggiatori, registi e attori unito alle competenze tecniche e informatiche che ogni giorno fanno funzionare le principali piattaforme di streaming.

 

“Spesso la gente ritiene che le scienze, le arti e le discipline umanistiche appartengano a compartimenti stagni che non comunicano tra loro. In realtà sono tutte espressioni della creatività umana e dobbiamo rompere le barriere che le separano” – Fabiola Giannotti, direttrice del Cern di Ginevra.

 

Ed è in primis lo Stato, attraverso le istituzioni e con politiche ad hoc, a dover pensare alle professioni e competenze scientifiche e umanistiche non come due poli opposti, ma in un rapporto osmotico e di dialogo. Il segno di una società e di un’economia davvero evoluta è proprio questa compenetrazione, che presenta un duplice vantaggio: permette di arginare il pericolo di una deriva orientata solo al profitto, a scapito della dimensione umana, e di abbattere le disuguaglianze, dando pari dignità a tutti i lavoratori.

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