Entro il 2050 in Italia vivranno quasi sei milioni di persone in meno, e la quota di popolazione giovane sarà notevolmente inferiore rispetto a quella degli anziani. È la peggiore crisi di denatalità mai affrontata dal nostro Paese, che però continua a dare la colpa all’egoismo dei giovani
«Il segretario l’altro giorno passava per piazza San Pietro e ha visto una signora con il carrello dei bambini ma dentro c’era un cagnolino…è un simbolo. Ci vogliono figli, abbiamo bisogno dei figli!». Non è la prima volta che Papa Francesco torna sul tema dell’inverno demografico. Quest’ultimo intervento del pontefice è avvenuto lo scorso 2 dicembre nel corso del Forum delle Famiglie, e non si può fare a meno di notare che, anche stavolta, non si è persa l’occasione di colpevolizzare i cittadini, rappresentati in questo caso dall’inconsapevole signora proprietaria del cagnolino nel passeggino, assurta ad esempio negativo di chi preferisce un animale domestico alle gioie della genitorialità.
Fermo restando che le scelte private e personali di ognuno di noi non sono (o meglio, non dovrebbero essere) materia di discussione né dei pontefici né dei politici, che l’Italia stia attraversando una crisi di denatalità è evidente ed è un problema per tutti: nel Belpaese si fanno sempre meno figli, e la fase di calo è iniziata nel 2009, e fino al 2021 si è registrato un calo medio costante annuo del 2,8%. Secondo le previsioni 2022 della Population Division, il dipartimento dell’Onu che si occupa della popolazione, la popolazione italiana scenderà a 36 milioni in due generazioni, 3,1 milioni in meno rispetto alla previsione di tre anni fa, 22 milioni di abitanti in meno rispetto a oggi. Tra il 2050 e il 2060 il nostro Paese arriverà allo squilibrio di 350mila nati contro 800mila morti annui. È chiaro che l’assenza di ricambio generazionale consegna il futuro del Paese nelle mani della fascia più anziana della popolazione, ed è inevitabile che poi la classe dirigente abbia come priorità le sue esigenze e continui a mettere in secondo piano quelle delle ultime e nuove generazioni.
Papa Francesco ha ragione quando dice che oggi serve “un impegno politico in senso ampio e alto perché le famiglie non siano sfruttate e poi penalizzate, ma promosse e sostenute”: quel che non va è l’atteggiamento paternalistico e accusatorio nei confronti degli italiani senza figli. Perché, al netto del fatto che tra loro c’è chi sceglie legittimamente di non essere genitore e chi non può/riesce, avere un figlio è un’impresa che oggi in pochi possono intraprendere con piena serenità. La volontà c’entra poco, perché più spesso è una questione di cosa non abbiamo per poter decidere di avere un figlio.
Non abbiamo abbastanza soldi
Partendo con il “sodo” della questione, questo è il principale problema della denatalità: secondo uno studio di Money Farm, mantenere un figlio costa in media tra 100 e 200 mila euro, con punte oltre i 300 mila per i più agiati.
Lo studio presuppone che le spese di mantenimento si fermino quando il figlio compie 18 anni, che è un’ipotesi molto lontana dalla realtà: infatti, secondo i dati più aggiornati forniti da Eurostat, l’età media in cui un italiano è indipendente economicamente è di 30,2 anni, 31,2 per gli uomini, 29,2 per le donne, a fronte di una media europea di 26,4 anni.
Non abbiamo una vera parità di genere
In Italia lavoriamo 46 ore in più rispetto alla media europea, ben 1.513 ore all’anno, secondo True Numbers. Se già così è complicato per una giovane coppia trovare un equilibrio tra il lavoro e la cura dei figli, non si può non considerare che, per ragioni principalmente culturali, sono le donne a sobbarcarsi il peso della genitorialità: un rapporto Oxfam ha evidenziato che, a livello globale, “donne e ragazze (soprattutto se vivono in povertà e appartengono a gruppi emarginati) dedicano quotidianamente 12,5 miliardi di ore al lavoro di cura non retribuito”.
Un dato che, limitando lo sguardo alla nostra penisola, assume tinte ancora più drammatiche: come si legge nel settimo Report “Le Equilibriste: la maternità in Italia nel 2022” le donne sono ancora spesso costrette a rinunciare a lavorare a causa degli impegni familiari: «il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli risulta non occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali; oppure, laddove il lavoro sia stato conservato, molte volte si tratta di un contratto part-time, come avviene per il 39,2% delle donne con 2 o più figli minorenni. Solo poco più di un contratto a tempo indeterminato su dieci, tra quelli attivati nel primo semestre 2021, è a favore delle donne. Nel solo 2020 sono state più di 30 mila le donne con figli che hanno rassegnato le dimissioni, spesso per motivi familiari, anche perché non supportate da servizi sul territorio, carenti o troppo costosi, come gli asili nido».
Perdipiù, non si può dare per scontato che tutte le donne desiderino essere madri. Come ha scritto la giornalista Maria Cafagna su Fanpage, «Noi donne non siamo degli animali da monta, ma delle persone e delle cittadine a tutti gli effetti pari, almeno sulla carta, ai nostri colleghi, fidanzati, amici, partner uomini. Se, com’è ormai noto da molti anni, l’età della prima gravidanza aumenta e con essa i rischi connessi, è anche vero che uno dei motivi è che da ormai qualche decennio le donne hanno iniziato ad autodeterminarsi e molte di loro hanno studiato, si sono formate, hanno avviato imprese, gestiscono attività, insomma lavorano e si guadagnano da vivere».
Anche perché, in un quadro salariale piuttosto negativo come quello italiano (siamo l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito) è praticamente impensabile crescere un figlio, qualora lo si desideri, con un solo stipendio.
Riguardo le agevolazioni previste In Italia per i neogenitori, la legge prevede un congedo parentale, ossia il diritto ad un periodo di 10 mesi di astensione dal lavoro spettante sia alla madre sia al padre lavoratori, da ripartire tra i due genitori e da fruire nei primi 12 anni di vita del bambino. Peraltro, la legge di bilancio 2023 all’art. 66 prevede un innalzamento della misura dell’indennità del congedo parentale: la relativa aliquota (commisurata sulla retribuzione) verrà elevata all’80%. Ma lo stesso articolo specifica che questa misura è prevista solo per le madri lavoratrici dipendenti. Sindacati e alcune forze politiche hanno quindi chiesto l’estensione anche ai padri della possibilità di usufruire della retribuzione maggiorata all’80%. In Italia nel 2020 gli uomini che hanno usufruito dell’astensione dal lavoro per occuparsi dei figli sono stati il 22,30% nel settore privato, a fronte di quasi il 78% di donne, secondo Openpolis.
A completare il quadro di instabilità – quella che ha appunto un certo peso nell’attuale crisi di denatalità – ci sono tre milioni di italiani in condizioni di precarietà, secondo le ultime rivelazioni Istat: al 2021, come sottolinea Osservatorio Diritti , «sette contratti su dieci sono a tempo determinato, il part time involontario coinvolge l’11,3% dei lavoratori, solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili e i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale».
Per riassumere: l’Italia non è un paese che supporta adeguatamente le giovani donne, non consentendo loro di bilanciare con serenità il desiderio di una carriera professionale con quello della maternità e non garantendo una reale parità di genere. Non c’è davvero da stupirsi se le donne senza figli, che sia per scelta o per cause di forza maggiore, siano in numero sempre maggiore.
Comprare una casa è sempre più difficile
Per i Millennials, i nati tra il 1981 e il 1996 – i primi dai quali ci si aspetta che “mettano su famiglia” – il confronto con la generazione precedente è spesso fonte di una pressione sociale non indifferente: i genitori dei trenta-quarantenni di oggi, alla stessa età, godevano di contratti indeterminati e avevano in media già un paio di figli che crescevano nelle loro case di proprietà. Scenari fantascientifici per i tempi moderni; ma il mito dell’abitazione, culturalmente radicato nei cuori e nelle menti degli italiani, cozza con una realtà fatta di stipendi troppo bassi per permettersi a malapena un monolocale, figurarsi un appartamento tutto per sé.
Secondo uno studio di Tecnocasa, in media per acquistare un appartamento in Italia servono 6,9 annualità di stipendio. A Milano questo dato raddoppia, arrivando a 12,8. A Roma e Firenze per comprare casa servono “solo” 9,1 anni di lavoro. A Bologna 7,9 e a Napoli 7,3. Questi dati sono comunque parziali, perché lo studio ipotizza che il reddito di un lavoratore sia destinato interamente all’acquisto di un’abitazione di 85 metri quadrati. I tempi, in realtà, sono molto più lunghi perché nel calcolo bisogna includere il livello medio degli stipendi e l’ingresso dei giovani italiani nel mercato del lavoro.
Abbiamo già visto l’impietoso confronto tra gli stipendi italiani e quelli degli altri paesi dell’area Ocse. Più nel dettaglio, 22,7 milioni di italiani non superano i 20 mila euro l’anno. Su 40,5 milioni di contribuenti, il 4% dichiara più di 2.850 euro netti al mese, mentre il 56% dichiara meno di 1.300 euro netti al mese. Meno di 41 mila contribuenti (0,1% del totale) dichiarano un reddito annuo lordo medio superiore a 300 mila euro (circa 12 mila euro netti al mese).
Considerando che in Italia l’età media di ingresso nel mercato del lavoro è 24 anni, tra le più alte d’Europa (l’Ocse ha evidenziato che nel nostro Paese la durata della transizione dal sistema di istruzione al lavoro è pari a 44,8 mesi, cioè quasi quattro volte di più della stima Eurostat), non stupisce che, sempre secondo Tecnocasa, gli italiani riescano a comprare casa in media a 41 anni, un’età in cui è difficile che si abbia più di un figlio, sia per le ingenti spese economiche sia per ragioni biologiche.
È anche una questione di diritti (che mancano)
L’Italia è tra i sette paesi rimasti in Europa a non possedere una chiara legislazione in merito all’adozione per le coppie omosessuali, insieme a Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. Dall’introduzione della legge sulle unioni civili nel 2016, in Italia si sono unite civilmente circa 15 mila coppie. L’accesso all’adozione è spesso ostacolato da una politica conservatrice che vuole riservare il diritto alla genitorialità esclusivamente alle persone eterosessuali, di fatto però contribuendo in parte all’inverno demografico.
Lo stesso discorso può ampliarsi alle famiglie straniere e alle persone migranti: le difficoltà nell’ottenimento della cittadinanza italiana e nell’inserimento nella società, nonché nel mercato del lavoro, riguardano 500 mila immigrati irregolari in Italia. Eppure, una politica di maggiore apertura porterebbe al Paese dei vantaggi in merito al tema della natalità: secondo il Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, la popolazione straniera in Italia è composta al 20% da minori di 18 anni. Di fatto, quindi, la popolazione straniera è più giovane di quella nata in Italia. I ragazzi nati da genitori stranieri sono oltre un milione e se ad essi aggiungiamo i nati all’estero, la compagine dei minori stranieri supera quota 1.300.000 e arriva a rappresentare il 13% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni.
Non abbiamo fiducia nel futuro
Diamo uno sguardo agli ultimi due anni e mezzo: una pandemia globale, una nuova guerra in Europa, un’altra crisi economica e un pianeta sempre più caldo, dove i disastri ambientali sono ormai all’ordine del giorno. Una delle motivazioni più gettonate per le quali i giovani non vogliono avere figli è proprio la paura.
D’altronde, l’ultimo rapporto Censis fotografa un Paese profondamente segnato dagli ultimi due anni e mezzo: più di sei giovani su dieci (62%) hanno cambiato la propria visione del futuro a seguito della pandemia. Solo per il 22% il futuro sarà migliore, mentre il 40% ritiene che sarà peggiore. Manca una promessa di miglioramento e benessere per le giovani generazioni, e di fronte a un futuro ignoto prevalgono incertezza (49%) e ansia (30%), che in alcuni casi si trasformano in paura (15%) e pessimismo (13%), soprattutto dinanzi a eventi le cui dimensioni e conseguenze vanno oltre la capacità di previsione e di intervento dei singoli.
Questa paura del futuro si traduce in una generale sfiducia nella politica, percepita come incapace di gestire le attuali crisi e non in grado di mettere le persone al primo posto, favorendo invece gli interessi economici di pochi.
Un figlio non è una voce in un bilancio economico, anzi, è principalmente un investimento emotivo: un futuro che ci appare sempre più oscuro, tra crisi sanitarie, politiche, economiche e ambientali non è più così allettante per una giovane coppia, e sono molte le persone che considerano addirittura egoista mettere al mondo dei figli in una situazione mondiale così precaria.
A tutto questo bisogna aggiungere che il concetto stesso di famiglia e di coppia sta cambiando. Anzi, è già cambiato: la “famiglia tradizionale” di stampo cattolico è un modello non più applicabile a ogni realtà, le sensibilità sono mutate e avere un figlio non è più percepito come un “obbligo morale”.
Sul tema la società appare notevolmente polarizzata: se da un lato la frangia più tradizionalista vede nello scardinamento della famiglia la radice del problema della denatalità, chi ha posizioni più progressiste desidera che le istituzioni prendano atto del cambiamento già in corso e adattino le politiche di sostegno a tutti i tipi di famiglia.
Basta colpevolizzarci
L’elenco di tutto ciò che non abbiamo per poter affrontare la crisi demografica fa apparire l’atteggiamento accusatorio nei confronti delle giovani famiglie come un voler scaricare la colpa della crisi sulle loro spalle.
Senza un sostegno attivo della società alle famiglie, senza una reale equiparazione dei ruoli genitoriali, senza una politica attiva di inclusione della comunità LGBTQ+ tra gli aventi diritto alla genitorialità e senza un intervento deciso nelle politiche del lavoro che assicurino salari adeguati al costo della vita l’inverno demografico sarà inevitabilmente destinato a peggiorare. E se la responsabilità non può essere scaricata sui cittadini, l’onere di queste azioni concrete resta delle istituzioni.
Leggi anche >> Lavorare lontano dalle nostre famiglie e origini può logorare la nostra identità