Sempre più lavoratori che operano da remoto, attivi nel campo del digitale e della tecnologia, affiancano alla propria occupazione principale un altro impiego. Si tratta del poliworking, una pratica che arriva dagli Stati Uniti e che coinvolge molti giovani professionisti: tra le altre cose, consente di avere una maggiore sicurezza economica e di azzerare i tempi-morti tipici del lavoro da casa

A partire dal 31 marzo 2022, con il termine formale dello stato di emergenza dovuto alla pandemia, molti professionisti sono tornati a lavorare maggiormente in presenza. Ma il remote working continua a essere ancora molto utilizzato, anche se meno rispetto agli anni dell’emergenza sanitaria. Secondo un’indagine del Politecnico di Milano, i lavoratori da remoto nel 2022 sono stati circa 3,6 milioni, quasi mezzo milione in meno rispetto all’anno precedente, ma molti di più rispetto ai circa 500 mila attivi prima della pandemia. Il calo ha toccato soprattutto i dipendenti delle piccole e medie imprese e della pubblica amministrazione, mentre le grandi imprese da sole hanno circa la metà dei lavoratori da remoto

Ma il remote working non è si è rivelato solo uno strumento per gestire la situazione di emergenza causata dalla pandemia, ma anche una leva per ripensare l’organizzazione del lavoro del singolo dipendente, che in questo modo può gestire maggiormente il proprio tempo e lavorare più per obiettivi. Questa nuova dimensione professionale, ora che non è più una novità per molti dipendenti, sta iniziando a favorire una nuova tendenza, quella del poliworking. Molti lavoratori, infatti, potendo gestire in autonomia task e scadenze, e operando principalmente da remoto, scelgono di svolgere anche un secondo impiego – da qui il nome “poliworking”, coniato negli Stati Uniti, dove questa pratica è sempre più diffusa.

 

Cos’è il poliworking

Secondo un sondaggio della società americana Paychex, specializzata in human resources, il 40 per cento dei lavoratori statunitensi intervistati, su un campione di mille persone, dichiara di svolgere più lavori nello stesso momento. All’interno di questo gruppo non rientrano solo i lavoratori freelance, che per loro natura sono più portati ad avere vari clienti, ma anche e soprattutto i dipendenti delle aziende – oltre il 70 per cento di questi infatti dichiara di avere almeno due lavori. Tra quelli intervistati, i professionisti appartenenti alla Generazione Z sono quelli più propensi al poliworking (46 per cento), seguiti da quelli nati tra il 1965 e il 1980 – la cosiddetta Generazione X.

Il principale settore di appartenenza dei “poliworkers” è il digitale la tecnologia, e la maggior parte di loro (l’81 per cento degli intervistati) opera da remoto – cosa che per l’appunto garantisce un grado di flessibilità tale da portare molti professionisti a svolgere più mansioni, o per lo meno a lavorare per più clienti. Inoltre, ad appartenere a questa categoria sarebbero più uomini che donne – il 57 per cento contro il 43, secondo la ricerca di Paychex. Le motivazioni che portano le persone al poliworking sono per lo più di natura economica – è infatti un modo per “arrotondare” lo stipendio da dipendente senza lasciare che il lavoro occupi necessariamente più tempo del dovuto.

Il poliworking consente anche di riempire i tempi-morti tra un progetto e l’altro (molto comuni nel remoto working), dedicandosi a task e clienti paralleli, cosa che permette quindi di mantenere un flusso di lavoro pressoché costante – quasi come si fosse in ufficio. Non solo: per coloro che operano in ambito creativo, il poliworking può essere anche una valvola di sfogo; permette infatti di seguire progetti personali o magari più entusiasmanti di quelli che si svolgono durante la propria mansione principale.

 

I benefici e i limiti del poliworking

Solitamente il settore di appartenenza dei singoli poliworkers rimane a grandi linee lo stesso, perciò svolgere un task per la propria azienda o farne uno per un cliente esterno è tutto sommato indifferente in termini puramente lavorativi, tanto più se si opera da remoto e ci si può organizzare obiettivi e tempistiche. Dall’altro lato, però, c’è il rischio di accumulare troppi progetti e che le consegne si accavallino, perciò i poliworkers devono stare più attenti a calibrare i carichi di lavoro.

Di norma chi lavora come dipendente nel settore privato non ha restrizioni rispetto allo svolgimento di un’altra attività parallela da libero professionale, a patto che non vi siano clausole esplicite e motivate nel contratto di lavoro. Bisogna però fare attenzione al rispetto del patto di non concorrenza, cioè il divieto per il lavoratore dipendente di svolgere attività in concorrenza al datore di lavoro. Per quanto riguarda i lavoratori del settore pubblico, invece, questi sono vincolati dall’obbligo di esclusività – un vincolo per cui il dipendente pubblico è chiamato a svolgere il proprio lavoro solo per la pubblica amministrazione.

Dal 2019 i volumi di ricerche online relative al poliworking – così come ai termini correlati, quali “gig work” e “side hustle” – sono aumentati considerevolmente. Anche se il trend, per il momento, è stato individuato principalmente negli Stati Uniti, e in particolare nei grandi centri del Paese, «non è difficile immaginare una situazione simile in Europa, sia perché le due economie sono strettamente legate, sia perché le novità riguardanti il remote working e l’aumento del costo della vita pongono molte persone nelle stesse condizioni» ha concluso Wired Italia.

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