I recenti avvenimenti americani hanno riportato l’aborto al centro del dibattito pubblico. La limitazione dei diritti civili, soprattutto per una categoria già svantaggiata come le donne, comporta sempre costi economici e sociali. E anche la situazione italiana non è rosea
L’aborto è tornato ad essere un tema centrale nel dibattito pubblico per ragioni ormai ben note, che tuttavia sono in continua evoluzione. Considerata anche la frequente confusione che c’è stata nel presentare il tema è doveroso un rapido riassunto di ciò che è accaduto (o meglio sta accadendo) negli USA.
Seppure sia (gravemente) impreciso asserire che la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia “abolito l’aborto”, è corretto dire che essa ha eliminato il diritto all’aborto a livello federale, con una sentenza che ribalta la storica decisione che dal 1973 garantiva fino a un certo mese l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza su tutto il territorio nazionale statunitense: la celebre sentenza Roe v. Wade. Con la conseguenza che da quel momento ogni singolo stato americano può decidere di adottare la legislazione che preferisce, senza vincoli a livello federale. Le conseguenze sono già molto gravi e discusse: in sette Stati degli USA l’aborto è stato sostanzialmente vietato (Kentucky, Louisiana, South Dakota, Arkansas, Missouri e Oklahoma). Vengono invece indicati come 13 (o 16 secondo stime ancora più pessimiste) gli Stati in cui l’aborto corre gravi rischi.
Le prime reazioni di Biden, fra dichiarazioni e ordine esecutivo
Tutto ciò non pone solamente dei dilemmi etici e costituzionali, ma un problema anche dal punto di vista del federalismo statunitense. Avere Stati in cui l’aborto fosse consentito in termini molto laschi ed altri in cui qualsiasi sua forma (perfino nei casi limite di ragazze minorenni violentate) stressa diversi interrogativi sulla natura di un sistema effettivamente federale. Anche per questo c’è già stata una prima risposta del Presidente degli USA Joe Biden (ricordiamo che su questo tema la politica americana tutta è stata lacunosa, limitandosi a fare affidamento su Roe v. Wade senza però garantirla politicamente, attraverso l’intervento del legislatore). Dopo che già era intervenuto il giorno della sentenza parlando di “giorno triste per la Nazione”, il presidente ha firmato un ordine esecutivo, incaricando il Segretario alla Salute Xavier Becerra di tornare da lui fra trenta giorni, con proposte finalizzate a garantire l’accesso delle donne all’aborto. Si tratta di assicurare che possano ricevere la pillola del giorno dopo anche negli Stati che hanno approfittato della sentenza della Corte Suprema per vietare l’interruzione di gravidanza, attraversare liberamente i confini per andare dove la pratica è rimasta legale, ricevere i contraccettivi, salvaguardare la loro privacy e l’obbligo federale dei medici ad assisterle.
Le conseguenze sociali dei limiti all’accesso all’aborto
Delle conseguenze di una maggiore o minore apertura legislativa verso l’interruzione di gravidanza sul benessere socioeconomico delle donne si sono recentemente occupate due scienziate sociali italiane (Marina Della Giusta e Caterina Muratori) per lavoce.info. In primo luogo, bisogna considerare che l’aborto si lega a variabili molto diverse tra di loro. Queste possono essere divise in cosiddetti effetti di prim’ordine, ossia gli impatti diretti che la garanzia di accesso all’aborto ha sugli aborti stessi e sulle donne, ed effetti di second’ordine, ossia quelli che discendono dai primi effetti.
Per quanto riguarda gli effetti di prim’ordine, questi sono stati ampiamente studiati in letteratura, arrivando a conclusioni ormai solide. Certamente limitare l’accesso al servizio di interruzione di gravidanza comporta una consistente diminuzione del numero degli aborti, accompagnata quindi da un conseguente incremento delle nascite. I risvolti socialmente più dolorosi sono però i seguenti: un drastico aumento delle gravidanze fra le ragazze adolescenti e le giovani donne e un peggioramento della mortalità materna, collegato sia al mancato intervento su complicazioni legate alle gravidanza, che al ricorso all’aborto clandestino, vera e propria piaga sostanzialmente debellata in Italia negli anni ’70.
Gli effetti “secondari”
Dal punto di vista degli effetti secondari, per come li abbiamo definiti sopra, una pagina fondamentale è rappresentata dal mercato del lavoro. Purtroppo il rapporto tra maternità e lavoro resta dialettico (per non dire conflittuale, in molte società) e minori possibilità lavorative e ridotto potere economico si traducono in una diminuzione dell’autonomia delle donne. In particolare per la condizione femminile (ma non solo per le donne), i diritti civili sono interconnessi a quelli sociali: il loro riconoscimento diventa anche un volano per l’emancipazione economica, mentre la loro limitazione può arrestare o far retrocedere quella stessa emancipazione. Attraverso la diminuzione del potere contrattuale femminile, causata dall’aumento di gravidanze indesiderate, si arriva a una diminuzione della capacità di contrastare (o almeno evitare) la violenza di genere, sia all’interno che all’esterno della famiglia.
Come spiegano Della Giusta e Muratori: “All’interno della coppia, l’arrivo di un figlio rende più difficile per una donna abbandonare la relazione violenta, sia per ragioni economiche che emotive. Sfruttando i dati raccolti nell’ambito del Turnaway Study – una raccolta di interviste fatte nel tempo a donne recatesi in 30 cliniche americane nella speranza di ottenere un aborto – Roberts et al. (2014) stimano che ottenere un aborto, rispetto a non ottenerlo, sia associato ad una riduzione nel tempo della violenza da parte dal partner. La loro conclusione è che avere un figlio con uomo violento, rispetto a ottenere un aborto, renda difficile per una donna lasciare la relazione“.
Le categorie più colpite: donne giovani e povere
Come si può immaginare, impedire di interrompere una gravidanza nel momento in cui non ci si trova nella situazione psicologica, relazionale o lavorativa più adatta, incide pesantemente sulle traiettorie di vita di molte donne. Bisogna anche considerare che donne che desidererebbero ricorrere all’aborto sono già una categoria pre-selezionata, che passa da una sorta di imbuto.
Infatti, sono soprattutto le donne più giovani e segnate da condizioni di marginalità economica e sociale a ricorrervi: quando non vi siano le condizioni socio-economiche necessarie, il costo di un figlio, già molto alto per qualsiasi famiglia, risulterà poi insostenibile. Un’ulteriore aggravante, infatti, è che le categorie per le quali il costo di figli indesiderati risulta particolarmente alto – come nel caso di persone economicamente svantaggiate, donne sole e ragazze adolescenti – sono anche quelle che generalmente riportano tassi maggiori di gravidanze non pianificate, con conseguente maggiore bisogno di ricorrere all’aborto, anche a causa della non gratuità della contraccezione, il cui costo è tale da non renderla universalmente accessibile.
Uno sguardo all’Italia: la situazione non è rosea
In Italia la situazione per l’inserimento delle madri nel mondo del lavoro non è certo rosea. Recentemente, avevano fatto scalpore le dichiarazioni, rilevatrici di un dato culturale, dell’imprenditrice Elisabetta Franchi. E proprio i fattori culturali e strutturali sono quelli cui guardare con maggiore attenzione: in economia è ormai riconosciuta la presenza del cosiddetto premio salariale, di cui spesso godono gli uomini sposati, e della penalità salariale, riservata invece alle madri. Inoltre bisogna ricordare come l’aborto in Italia, pur garantito dalla famosa legge 194, sia di fatto notevolmente ostacolato, soprattutto in alcune regioni, dalla altissima percentuale di obiettori di coscienza fra i medici – che rende estremamente complicato per molte donne ottenere una IVG. Per non parlare poi (questione distinta ma molto vicina) dell’accesso agli anticoncezionali.
Sul piano del welfare, in Italia le madri hanno diritto a 5 mesi di maternità, mentre i padri a 10 giorni. Questo enorme sbilanciamento rende inevitabilmente le donne molto più assenti dai luoghi di lavoro rispetto alla loro controparte maschile, e, in secondo luogo, disincentiva i datori di lavoro a promuovere e assumere donne in età riproduttiva. In questo senso i fatti americani dovrebbero costituire uno spunto per una politica più coraggiosa, che non si limiti a censurare quanto accade dall’altra parte dell’oceano senza agire per colmare le lacune del nostro Paese.