Il G20, confermando precedenti accordi, ha dato il via ai lavori che porteranno nel 2023 alla global minimum tax. L’obiettivo è quello di colpire i profitti delle multinazionali, ricavando 125 miliardi di gettito: potrebbe trattarsi di una rivoluzione solo sulla carta, soprattutto per l’Italia
L’ultimo G20 ha dato avvio alla fase di elaborazione legislativa che porterà nel 2023 alla global minimum tax. Una tappa molto importante di un percorso partito diversi anni fa in ambito OCSE e che aveva già portato in ottobre a un accordo sulla fiscalità internazionale, sottoscritto da 136 giurisdizioni. Il presidente degli USA Joe Biden aveva promesso una “politica estera per il ceto medio”, e l’accordo sulla tassa volta a colpire i profitti delle grandi multinazionali verrà certamente venduto come un successo dal governo americano in questa direzione, anche considerando il ruolo rilevante assunto dagli Stati Uniti nelle negoziazioni. Per quanto riguarda il nuovo gettito, le previsioni OCSE di questa estate parlavano di 150 miliardi di dollari di nuovi imponibili, che sono state più recentemente riviste al ribasso arrivando a 125 miliardi di dollari (circa 106 miliardi di euro). Non è esagerato commentare che siamo alle soglie di una rivoluzione quantomeno formale. Tuttavia, a fronte di indubbie novità esistono solide ragioni di scetticismo, formali e sostanziali. La global minimum tax rappresenterà una rivoluzione solo formale?
Un problema politico chiamato elusione
Il dibattito si pone chiaramente nel solco del complesso problema dell’elusione fiscale, tema distinto da quello dell’evasione ma non meno sensibile dal punto di vista politico. Mentre l’evasione mira a sottrarsi al prelievo fiscale violando le leggi, l’elusione punta a pagare meno tributi aggirando le leggi. È il caso specifico di molte multinazionali (non solo quelle del big tech), che “scappano” spostando la sede fiscale in Paesi dal fisco agevolato. La questione politica è stata sintetizzata molto chiaramente da Pascal Saint-Amans, direttore “Tax” dell’OCSE che ha seguito le negoziazioni: “A essere in gioco, più che i soldi, è l’equità del sistema. Se le aziende non pagano la loro giusta quota, se non pagano quello che dovrebbero pagare usando scappatoie, chi paga? Gli altri contribuenti, gli individui, le persone che non possono spostarsi – e queste persone sono coloro che hanno votato per Trump. Sono coloro che rifiutano la globalizzazione e che si stanno spostando verso movimenti populisti. Quindi, la posta in gioco più del denaro, che comunque non è di poco conto, è la percezione che il sistema non sia ingiusto, che non ci sia qualcuno al di sopra degli altri”.
I due pilastri della global minimum tax
La global minimum tax, già dai precedenti accordi, si fonda su due pilastri. Da una parte il trasferimento dei diritti impositivi agli Stati in cui risiedono i consumatori (i cosiddetti Stati di commercializzazione), dall’altra l’idea dell’aliquota minima del 15% per le grandi imprese. Il trasferimento dei diritti impositivi riguarderà le big firm con un giro di affari che supera i 20 miliardi annuali e un margine di profitto del 10%. Il portato rivoluzionario di questa soluzione ha enormi implicazioni nell’economia globalizzata e digitale di oggi: la possibilità per gli Stati di tassare imprese che non possiedono strutture fisiche in quei Paesi, ma che da questi estraggono comunque significativi ricavi.
Per quanto riguarda il secondo pilastro, meritano di essere spese alcune parole proprio sull’ aliquota, che ha segnato una delle modifiche rispetto allo scenario emerso a luglio. Infatti è stata cancellata la dicitura “almeno del 15%” e non si tratta di un dettaglio: questa formula era particolarmente invisa all’Irlanda ma sostenuta da Joe Biden, che si sarebbe spinto anche fino al 21%, così come dal governo francese che proponeva il 18%. Questo relativo passo indietro è stato accolto criticamente da alcuni commentatori, venendo liquidato come “regalo all’Irlanda“, e avrà evidenti ripercussioni sul gettito prodotto, soprattutto per alcuni Paesi. Infatti una aliquota del 15% avrà un incremento di soli 2,5 punti percentuali rispetto alla corporate tax irlandese, che è del 12,5%. Stessa “corporate” di Cipro, che peraltro non è nemmeno fra i Paesi sottoscrittori, pur essendo, ricordiamo, membro dell’area Euro. D’altro canto, occorre tenere presente che si tratta di aliquote effettive e non solo nominali.
Alcune critiche, fra il generale e il dettaglio
Sia pure nell’indiscusso portato innovativo della global minimum tax, non sono mancate ulteriori critiche sia di fondo che di dettaglio. A livello di impianto generale non possono essere ignorate le considerazioni del premio Nobel Paul Romer, che evidenziava il problema ineludibile di una imposta sui profitti. Ricordiamo infatti che il profitto consiste nella differenza tra i ricavi (legati a un posto fisico) e i costi (spesso per le multinazionali distribuiti fra diversi Paesi). Per questa ragione il profitto non ha sede fisica, con inevitabili possibilità di elusione. In sostanza si rischia di tornare punto e a capo, lasciando ancora spazio di manovra alle multinazionali per eludere anche la “tassa globale”. Contando che invece il “ricavo ha una precisa localizzazione fisica, un’imposta sui ricavi non si troverà a dover fronteggiare questo problema: il ricavo è pressoché immobile ed è fortemente collegato a un utente/cliente che ha in genere una precisa sede fisica”. Ci si trova di fronte al dibattito sulla centralità delle imposte sul profitto nei sistemi tributari di oggi e di domani, a fronte di una economia digitalizzata che farà sempre di più emergere nuove forme di valore aggiunto.
Altri profili critici sono rappresentati dalla mancanza di uniformità sul concetto di “stabile organizzazione“, così come sulla base imponibile da considerare. Come notava Alessio Argiolas, queste asimmetrie tra sistemi fiscali di diversi Paesi potrebbero continuare a consentire alle multinazionali in questione di mantenere uno status sostanzialmente analogo a quello goduto negli ultimi anni. Ma è su un altro fronte, finora sottovalutato, che si concentreranno verosimilmente le strategie delle multinazionali per aggirare l’aliquota: gli strumenti finanziari ibridi. Si tratterebbe sostanzialmente di operazioni finanziarie infragruppo in grado di manovrare il reddito da una giurisdizione all’altra così da sopportare l’aliquota del 15% senza un reale incremento dell’imposta dovuta. Con l’effetto, quindi, di vanificare le previsioni contenute nel cosiddetto “secondo pilastro”. Profili di maggiore complessità rispetto al quadro generale finora delineato nell’ambito della global minimum tax, ma scappatoie del tutto agevoli per le big firm in questione. Proprio per questo sarà necessario tenerne conto con attenzione nell’ambito del vasto work in progress di cui si discute.
E l’Italia?
In conclusione, due ultime considerazioni, non meno importanti. La prima riguarda una clausola, contenuta nell’accordo, che impegna i Paesi a rimuovere le diverse digital/web tax emerse negli ultimi anni, così come ad astenersi dall’introduzione di nuove imposte di questo tipo in futuro. La seconda riguarda più da vicino l’Italia: le previsioni dello stesso ministro dell’Economia Daniele Franco parlano di 250 milioni di euro di gettito. Poco più che briciole. Ma per scoprire quanto la rivoluzione della global minimum tax sarà solo formale non resta che aspettare l’esito dei lavori.