Considerato uno dei fenomeni di punta dell’economia degli ultimi anni, il fast fashion risulta ora in calo. Scopriamo perché…
Non accadeva da anni, eppure in tempi di grandi cambiamenti e rivoluzioni anche i fenomeni che sembravano intramontabili possono trovarsi in difficoltà. È, purtroppo, il caso del fast fashion che negli ultimi mesi ha dovuto affrontare non pochi problemi legati non solo all’attuale crisi, ma anche ai cambiamenti del mercato e dei consumatori.
Ma partiamo dal principio… Quando parliamo di fast fashion ci riferiamo alla cosiddetta “moda veloce”. Veloce perché viene prodotta in fretta, seguendo i trend del momento, e altrettanto velocemente arriva nei negozi e ne esce, grazie a prezzi molto bassi legati alle economie di scala.
A farla da padrone, neanche a dirlo, sono gli spagnoli di Inditex (Zara, Bershka, Stradivarius, Pull&Bear, Massimo Dutti, Oysho, Uterqüe, Tempe, Lefties) e gli svedesi di H&M. In realtà, la Spagna è molto legata all’idea di “moda veloce”, mentre gli svedesi sono meno entusiasti di questa definizione, che spesso diventa sinonimo di poca creatività. In realtà, dice H&M, la forza del brand sta si nella velocità, ma intesa come prontezza a rinnovare gli stock dei negozi, a cogliere gli umori dei consumatori e offrire loro prodotti diversi ogni settimana.
Nuove abitudini di consumo
Eppure il fenomeno che credevamo inarrestabile ora sembra arrancare in mezzo alle difficoltà di questo periodo così particolare. Danneggiati dall’emergenza sanitaria, infatti, i grandi nomi del fast fashion hanno subito perdite importanti e hanno deciso di chiudere molti dei loro punti vendita, per concentrarsi sulle vendite online.
In realtà erano già due anni che marchi come Zara, H&M e Forever21 (andato in bancarotta nel 2019) stavano registrando notevoli cali, dovuti soprattutto ai cambiamenti del mercato e dei consumi. La svolta principale è stata data dalla tragedia di Rana Plaza, in Bangladesh, dove nel 2013 morirono 1.135 persone nel crollo di una fabbrica di vestiti.
Questo tragico episodio ha portato l’intera industria della moda (dai grandi nomi alle catene di fast fashion) a certificare la sostenibilità sociale dei loro prodotti. Sul fronte ambientale, H&M è sempre stata quasi impeccabile, lanciando collezioni di cotone organico e iniziative di economia circolare. Zara, invece, ha deciso di spostare gran parte della sua produzione in Spagna, Marocco e Portogallo, accelerando anche i tempi di consegna.
Ma forse tutto questo non è ancora abbastanza, perché l’idea di una moda veloce o addirittura “usa e getta” non è più al passo con i tempi. E non c’entrano solo le crisi economica e sanitaria: le nuove generazioni preferiscono dividere i loro budget – piccoli o grandi che siano – tra oggetti di consumo ed esperienze, e non sono più propensi all’accumulo sfrenato.
L’ulteriore crisi del 2020
Con l’esplosione della pandemia nei primi mesi del 2020, poi, i brand di moda hanno affrontato una crisi senza precedenti. Il primo problema era legato, naturalmente, alla chiusura dei punti vendita fisici. Questo non solo ha causato una perdita in termini di vendite, ma ha perfino costretto alcune aziende a chiudere definitivamente alcuni negozi e/o a licenziare parte del personale.
Certo, le vendite online hanno rappresentato una valida alternativa, dando a molti brand un po’ di respiro, ma in generale si è registrato un calo vertiginoso della richiesta di vestiti. Si è trattato di una vera “tempesta perfetta” per l’intero settore moda: la capitalizzazione di mercato media delle aziende di abbigliamento, moda e lusso è scesa di quasi il 40% tra l’inizio di gennaio e il 24 marzo 2020, e la crisi ha colpito più fronti, dagli affitti, all’inventario sino alla produzione.
Le chiusure dei brand di fast fashion
Dallo scorso marzo H&M ha chiuso ben 3.441 negozi su 5.062 (con 8 chiusure annunciate in Italia) e ha registrato un calo del 46% nelle vendite di marzo sull’anno precedente . Zara ha riferito che il 51% dei suoi 7489 negozi è stato temporaneamente chiuso e ha registrato un calo delle vendite del 24. 1% nelle prime due settimane di marzo.
Uniqlo, invece, ha previsto un calo del 44% del profitto operativo per l’anno corrente fino ad agosto. Tutti i 98 negozi europei sono stati chiusi da marzo, ad eccezione dello store di Stoccolma. In Cina circa la metà dei 750 negozi sono rimasti chiusi fino a maggio a causa dell’interruzione della catena di fornitura.
Insomma, pare proprio che l’emergenza sanitaria del 2020 abbia dato il colpo di grazia ad un fast fashion già in difficoltà. I consumatori sono più attenti e critici, i negozi fisici chiudono e l’e-commerce non riesce (almeno per il momento) a dare il rimbalzo sperato. Forse non è più tempo di una moda troppo veloce, e lo dimostrano anche i brand di lusso che si stanno pian piano sottraendo alla pressione della stagionalità abbandonando le fashion week.
Forse è arrivato il momento di una moda più lenta e attenta alle necessità di consumatori e produttori, una moda improntata sul digitale e sull’omnicanalità, per dare nuova vita anche ai punti vendita fisici.