Pagare le tasse non piace a nessuno, ma c’è qualcuno che in Italia riesce a pagarne molte meno di quanto non dovrebbe. Si tratta della fascia più ricca della popolazione, per cui “vivere di rendita” è un modo per non redistribuire il proprio reddito, con la complicità della fiscalità italiana che in questo modo alimenta le disuguaglianze economiche
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. È quanto recita l’articolo 53 della nostra Costituzione, eppure le cose non stanno così. Il nostro sistema tributario è leggermente progressivo fino al 95esimo percentile dei contribuenti, mentre per il restante 5% è regressivo. Questo significa che il 5% più ricco della popolazione paga un’aliquota fiscale inferiore al restante 95%. Uno scenario che denota una diseguaglianza legalizzata.
A denunciarlo è il paper “Ricostruzione della diseguaglianza di reddito in Italia: nuove prove e implicazioni delle politiche fiscali”, pubblicato dall’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna, realizzato dai professori Andrea Roventini, Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi e Alessandro Santoro, quest’ultimo professore di scienza delle finanze all’Università Milano-Bicocca.
Disuguaglianze di reddito: più sei ricco, meno paghi
Ma com’è possibile che i più ricchi paghino meno degli altri? Per capirlo, bisogna partire ragionando sull’evoluzione dell’Irpef. L’Imposta sul reddito delle persone fisiche, istituita nel 1974, è un sistema a scaglioni progressivi: a seconda dello scaglione dove ricade il reddito, il contribuente pagherà un’imposta pari ad ogni aliquota degli scaglioni precedenti moltiplicata per il loro reddito di riferimento, più la parte eccedente nel suo scaglione moltiplicata per la sua aliquota.
Inizialmente, l’Irpef conteneva 32 aliquote, dal 10% al 72% per gli scaglioni di reddito che, all’epoca, andavano dai 2 ai 500 milioni di lire. Col passare degli anni, però, le fasce di reddito sono state ridotte sempre di più, arrivando agli attuali 4 scaglioni: da 0 a 15mila, da15mila a 28mila, da 28mila a 50mila e oltre i 50mila. Le aliquote relative sono del 23, 25, 35 e 43%. Fino allo scorso anno esisteva una fascia in più, per i redditi superiori ai 75mila euro, che avrebbero versato 25.420 € + il 43% sulla parte eccedente i 75mila, mentre oggi chi è nella prima fascia versa 14.400 € + il 43% sulla parte eccedente i 50 mila €.
Questo cambiamento mostra già un approccio contrario alla progressività, come si può facilmente vedere da questo grafico.
Questo però non basta a spiegare come si arrivi alla regressione dell’imposizione fiscale. Il paper pubblicato dall’Università Sant’Anna va oltre, analizzando le diverse componenti del reddito. Per la fascia più alta, una parte importante del reddito proviene da rendite di capitali, immobiliari o finanziari. Nella fascia corrispondente al 10% più ricco, il 60% delle persone guadagna prevalentemente da lavoro dipendente, il 16% da libero professionista, mentre solo l’8% guadagna prevalentemente tramite gli utili dei propri investimenti. Se però ci concentriamo sull’1% più ricco, composto da circa 500mila persone, solo il 36% di loro guadagna prevalentemente da lavoro dipendente, mentre la fetta dei liberi professionisti sale al 31% e quella di chi si basa soprattutto su rendite dei capitali sale al 18%. Come se non bastasse, quell’ultimo sottoinsieme è il più rappresentato nello 0,1% più ricco della popolazione, per circa il 60%.
La crescente presenza delle rendite da capitale nella composizione dei redditi più alti, pari al 45% nel 5% più ricco della popolazione, è ciò che appiattisce la curva nel grafico. Le rendite hanno infatti una tassazione agevolata e non sono soggette ai contributi che gravano invece sul reddito da lavoro dipendente. Secondo gli autori della ricerca, la fascia più ricca gode di un’aliquota media di circa il 37% sul proprio reddito.
Neoliberisti all’assalto, fra tassa piatta e “sgocciolamento”
Nonostante il sistema mostri chiaramente una distorsione, l’ultima riforma dell’Irpef voluta dal governo Draghi ha semplificato ulteriormente l’imposizione fiscale per le fasce più ricche, nonostante il premier stesso, nella conferenza stampa di fine anno, abbia definito “falsa” questa critica. La politica non è nuova alla tentazione della riduzione delle aliquote e la flat tax è stata proposta più volte negli ultimi anni, in particolare dal leader della Lega Matteo Salvini, che proponeva l’aliquota del 15% fissa fino ai 100mila euro di reddito.
L’idea, oltre ad essere incostituzionale perché andrebbe del tutto contro il principio di progressività, aggraverebbe le disuguaglianze economiche. Come viene quindi giustificata la flat tax? Alla base di questa proposta c’è il cosiddetto principio del trickle down, che consiste nel favorire le fasce di reddito più alte, sgravandole dai pesi fiscali, così da permettere loro di creare posti di lavoro grazie ai maggiori guadagni. I redditi finirebbero così per “sgocciolare giù”, come suggerisce l’espressione inglese, e fare il gioco delle fasce più basse.
Questa idea, però, è stata già ampiamente smentita dagli studi di Thomas Piketty sulle riforme neoliberiste degli ultimi decenni. Nel suo “Capital in the Twenty-First Century”, l’economista mostra che questo approccio non solo non migliora le condizioni delle fasce più povere, ma le peggiora, in quanto il reddito aggiuntivo della popolazione più ricca non viene distribuito. Anzi, un approccio di questo tipo può portare anche ad una recessione, in quanto la diminuzione della ridistribuzione porta ad una stagnazione dei consumi. Per correggere la rotta è necessario l’intervento statale, come insegna la dottrina keynesiana.
La soluzione è…
Come afferma il professor Andrea Roventini, uno degli autori del paper, la soluzione migliore sarebbe un’imposta sulla ricchezza che grava proprio su quel 5% più ricco degli italiani: “colpendo le eccedenze patrimoniali sopra i 600.000 euro, correggerebbe la regressività del sistema fiscale e i ricchi smetterebbero di pagare meno tasse del restante 95%”.
Eppure, se la tendenza degli ultimi quarant’anni è stata quella di diminuire gli scaglioni Irpef e ogni tentativo di una tassa patrimoniale è naufragato (compreso quello fatto ad inizio pandemia, per finanziare la ripresa) è improbabile che l’attuale governo cambi rotta. Secondo Draghi, i segnali di ripresa dell’economia italiana danno buone speranze per il futuro. Peccato che non tutti avranno le stesse speranze.
Leggi anche >> Mentre il resto del mondo si muove verso la settimana lavorativa corta, cosa sta facendo l’Italia per aiutare i lavoratori?