Quel complesso e interconnesso sistema di trasporti e rifornimenti su cui si basano il commercio e l’economia globale, la cosiddetta supply chain, potrebbe aver subito un primo e profondo cambiamento a seguito della crisi dei commerci mondiali provocata, tra le altre cose, dalla pandemia.
Nato a partire dagli anni Novanta grazie al miglioramento di trasporti e delle comunicazioni, il sistema globale dei commerci è quel fenomeno per cui, semplificando molto, un iPhone viene progettato negli Stati Uniti e assemblato in Cina con processori che arrivano da Taiwan, schermi che arrivano dalla Corea del Sud, minerali che arrivano dall’Africa e così via; la cosiddetta supply chain fa in modo che tutti i componenti arrivino nel posto giusto al momento giusto, grazie alla gestione controllata di trasporti, logistica e approvvigionamenti.
Questo sistema si è espanso enormemente negli ultimi trent’anni, grazie anche all’ampia disponibilità di manodopera a basso costo in Paesi meno ricchi; nel 2000, ad esempio, il reddito annuo medio di una persona cinese era il 3 per cento di quello di un americano, perciò era possibile mantenere i margini di guadagno molto alti. Eppure, negli anni, delocalizzare la produzione all’estero è diventato man mano meno conveniente, a causa – tra le altre cose – dell’automazione e del fatto che i salari nei Paesi meno sviluppati sono cresciuti: per rendere l’idea, oggi il reddito medio di una persona cinese è il 16 per cento di un americano.
La crisi della supply chain
A differenza di qualche anno fa, si riscontra sempre più spesso la mancata disponibilità immediata su una grande quantità di prodotti. Di questa scarsità se n’è reso conto, ad esempio, chi ha ristrutturato la propria abitazione e si è trovato davanti gravi ritardi di approvvigionamento dei materiali, ma anche chi ha acquistato prodotti più comuni – come mobili, elettrodomestici, computer o automobili – e spesso ha dovuto attendere settimane o mesi per riceverli. La questione è stata attribuita a un problema complessivo del sistema dei commerci e dei trasporti, che già da circa un decennio si trovava in difficoltà e che è stato messo ulteriormente sotto pressione da diversi tipi di crisi avvenuti in un breve lasso di tempo – dalla pandemia alla mancanza di forza lavoro nel settore dei trasporti fino all’invasione russa dell’Ucraina.
Per questo, vari analisti e studiosi del settore cominciano a ritenere che una ristrutturazione della supply chain sia sempre più probabile e necessaria: in alcune circostanze, ci si aspetta che potrebbe quanto meno attenuarsi quel grande fenomeno che, dagli anni Novanta, ha portato alla delocalizzazione di aziende e industrie al di fuori dell’Occidente, facendo affidamento a trasporti e a comunicazioni sempre più efficienti per esportare a livello globale la produzione industriale – da qui il termine “globalizzazione”.
I governi stanno lavorando per riportare al proprio interno la produzione industriale di alcuni settori strategici, come quello dei microchip nel caso di Europa e Stati Uniti, mentre varie aziende che avevano spostato la propria produzione in Paesi con manodopera a basso costo – come la Cina, dove negli ultimi trent’anni si è concentrata circa un quarto della produzione manifatturiera mondiale – stanno sviluppando processi per rendere il loro business meno vulnerabile. La guerra commerciale avviata tra Cina e Stati Uniti, la crisi energetica provocata dalla Russia in Europa, e la sempre maggiore aggressività all’estero del regime cinese e di quello russo, tra gli altri, hanno dimostrato che essere dipendenti di uno stato autoritario porta notevoli rischi alle imprese.
Il post-supply-chain
La ristrutturazione del sistema globale della supply chain durerà probabilmente decenni, e attualmente se ne vedono soltanto alcuni segnali – corrispondenti a tre macro-fenomeni: la diversificazione, fare cioè in modo di non dipendere da un solo Paese o da un solo fornitore; il nearshoring, spostare cioè la propria produzione in un luogo vicino (near), e non dall’altra parte del mondo come hanno fatto finora molte multinazionali occidentali; e infine reshoring, cioè il rientro delle attività produttive nel Paese da cui erano state delocalizzate.
Secondo un sondaggio della società di consulenze McKinsey, il 93 per cento delle aziende individuate come “leader” nel settore della supply chain intende rendere il sistema più robusto nei prossimi anni. Queste strategie per migliorare la resilienza della supply chain potrebbero avere un alto prezzo economico: alcuni costi saranno assorbiti dalle stesse imprese, ma in una situazione in cui l’inflazione sta aumentando come non succedeva da trent’anni, è probabile che questi costi graveranno in parte sui consumatori.
Resta comunque il fatto che non ci saranno dei cambiamenti improvvisi ed evidenti nel modo in cui i beni sono prodotti e trasportati nel mondo: sistemi eccezionalmente complessi come la supply chain si trasformano molto lentamente, e per ora anche gli analisti più attenti stanno osservando soltanto i primi cambiamenti; allo stesso modo il mondo rimarrà interconnesso, ma non è da escludere che le modalità di queste stesse connessioni nel medio periodo cambieranno.