La guerra in Ucraina impone all’Europa, e in particolare all’Italia, di muoversi sul fronte energetico. Se la nostra dipendenza dalla Russia è malauguratamente cresciuta anche negli ultimi anni, non mancano oggi le occasioni per diversificare. Un quadro tra fonti estere e interne
I tragici avvenimenti delle ultime settimane, con l’invasione russa dell’Ucraina che purtroppo non offre oggi soluzioni accettabili, ci costringe a confrontarci con problemi economici e soprattutto energetici. Ma prima di concentrarsi sui nodi da sciogliere della politica europea è opportuno dare un’occhiata al Paese che sta generando questa crisi: la Russia, per l’appunto.
La banca d’affari JP Morgan ha prodotto un report in cui il crollo del PIL viene stimato al 7%. Di più: le stime medie degli economisti raccolte da Bloomberg arrivano addirittura ad un -9%. Come si ricava dal report: le sanzioni minacciano i due pilastri di stabilità, la ‘fortezza’ delle riserve in valuta estera della banca centrale e il surplus corrente”. Di conseguenza, sembra proprio che le sanzioni colpiranno nel segno. Per dare un ordine di grandezza, il PIL russo dovrebbe chiudere il 2022 a circa 1500 mld di dollari, collocandosi tra il Messico e la Spagna; molto distante dal PIL italiano, mentre la Cina viaggerebbe a grandezze dieci volte maggiori e gli USA addirittura quindici volte maggiori. Avere questo quadro di riferimento, molto critico per l’economia russa che già non versava certo in uno stato roseo, ci aiuta a realizzare quello che è il limitato margine di manovra di Putin. E di conseguenza anche il suo potere contrattuale sull’energia.
La “chiusura dei rubinetti” sarebbe un suicidio per la Russia
In primo luogo occorre chiarire un aspetto fondamentale, che riguarda un timore sollevato da molti: la famosa “chiusura dei rubinetti” del gas sarebbe un suicidio da parte della Russia, che dovrà far fronte agli enormi problemi di cui sopra. Vengono definiti “commodities” quei beni per i quali c’è domanda ma che vengono offerti senza differenze qualitative sul mercato e che sono fungibili. Ovvero: il prodotto è lo stesso indipendentemente da chi lo produce, come per esempio il petrolio, i metalli e il gas. Questo significa che se da una parte la Russia gode del vantaggio delle sue enormi dimensioni nel reperimento delle fonti energetiche, dall’altra la concorrenza con altri Paesi fornitori passa solo attraverso prezzi e infrastrutture. E questo comporta naturalmente che sia possibile, almeno nel lungo periodo, diversificare le fonti, lasciando che la Russia non esporti nemmeno il suo asset principale. In sostanza, una chiusura dei rubinetti totale da parte del governo russo equivarrebbe a tagliare il ramo su cui è già scomodamente seduta la propria economia.
Le fragilità dell’Europa e dell’Italia
Certo, questo non significa che nei governi continentali non ci sia stata una certa miopia dal punto di vista energetico. L’Europa, e in particolare l’Italia e Germania, sono particolarmente esposte. Se il nostro continente riceve dalla Russia circa il 40% del suo gas, l’Italia fino a febbraio arrivava addirittura al 45%. È da notare, e questo aspetto è stato non da ultimo stigmatizzato anche dal Presidente del Consiglio Mario Draghi, che la dipendenza da fonti russe era ulteriormente aumentata negli ultimi dieci anni, quindi anche successivamente all’invasione della Crimea (2014). Infatti, nel 2012 la quota viaggiava attorno al 30%, mentre nel 2015 arrivò al 44%.
A tal proposito: attraverso quali canali arriva in Italia il gas russo? Si tratta di tre gasdotti. Il primo, l’Urengoy-Pomary-Uzhgorod, lungo ben 4450 km, parte dalla Siberia e arriva fin quasi in Slovacchia passando proprio per l’Ucraina. A quel punto, attraverso il Transgas, arriva in Austria dove viene incanalato nel Tag (Trans Austria Gas), controllato da Snam, e quindi trasportato per i km che restano fino all’impianto di Tarvisio, località in provincia di Udine, al confine con Austria e Slovenia.
Ma il gas italiano? Ecco perché non ci “aiutiamo a casa nostra”
Bisogna tenere presente che l’Italia importa quasi la totalità del gas che consuma. Per quanto riguarda fonti interne, infatti, l’Italia estrae solamente il 4,4% del gas consumato annualmente (3,4 mld di metri cubi di gas naturale contro i 76,1 miliardi che utilizziamo). Pensare che a cavallo tra i due millenni l’estrazione era addirittura sei volte maggiore: 20 miliardi di metri cubi all’anno. In questa situazione oggi saremmo molto più tutelati; ma quindi per quale ragione non utilizziamo il nostro stesso gas? In primo luogo, la l. 133/2008 ha imposto divieti all’estrazione di gas nell’area adriatica, dove abbiamo le maggiori riserve di gas. Nella prospettiva del legislatore occorreva infatti evitare il rischio di c.d. subsidenza, ovvero l’abbassamento del livello del suolo. Inoltre, c’è stata forte attenzione ai rischi ambientali, in particolare sismici derivanti dal fracking (fratturazione idraulica). Ultime ma non ultime le ragioni economiche: rispetto alla costruzione o alla implementazione di nuove infrastrutture si è ritenuto a lungo più conveniente acquistare gas dalla Russia anziché estrarlo.
Non solo Russia: il quadro attuale dei rifornimenti
Tuttavia, non di soli gasdotti russi si riscaldano gli italiani. Immaginiamo velocemente un “diagramma a torta” sulla base di questi dati: dalla Russia il 38,2% (fino a febbraio era il 45%), dall’Algeria il 27,8%, dall’Azerbaijan il 9,5%, dalla Libia il 4,2%, mentre una parte residuale (2,9%) arriva da Norvegia e Olanda. Il 13,1% del gas arriva sotto forma di GNL (gas naturale liquefatto), via nave, prevalentemente dal Qatar.
Per quanto riguarda la geografia: da sud, attraverso Transmed (una struttura lunga 2000 km) il gas arriva fino a Mazara del Vallo partendo dall’Algeria. Dalla Libia invece il gas arriva attraverso i 520 km di Greenstream, fino a Gela. Altro Paese fornitore è l’Azerbaijan. Dal nord Europa: i 293 km del Trasitgas e che portano il gas in Italia attraverso il Passo Gries.
Un po’ diverso, ma logisticamente non trascurabile, il quadro delle navi: queste infatti trasportano gas raffreddato (fino a -162 gradi) che diventa così GNL, in modo da poter essere stoccato e trasportato via mare. La difficoltà ulteriore in questo caso sta nella necessità di “rigassificare” il gas liquido per poterlo poi utilizzare. Servono appositi impianti, e in Italia ne esistono tre: Panigaglia (La Spezia), Livorno e Rovigo. Il GNL arriva in prevalenza dal Qatar.
Cosa cambierà: la strategia del Governo per diversificare
Da qualche settimana ormai sono partite le missioni del Governo italiano per diversificare le fonti e rendersi più indipendenti dalla Russia. Principali protagonisti il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi (il ruolo di Eni ed Enel nella politica estera italiana non sarà mai valutato abbastanza). Il ministro e il supermanager si sono infatti recati in Algeria il 28 febbraio per rafforzare la cooperazione energetica e successivamente in Qatar, presso l’emiro Tamim Bin Hamad al Thani, che secondo il ministero ha “confermato l’amicizia e la solidità delle relazioni bilaterali tra Italia e Qatar e una maggiore collaborazione in campo energetico”. Non è mancata, prontamente comunicata dagli account ufficiali, anche una telefonata tra il Presidente del Consiglio Draghi e il Presidente della Repubblica dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev. Naturalmente, anche in questa nota si leggeva dell’“ulteriore rafforzamento della cooperazione bilaterale, in particolare nel settore energetico”.
Ancora non è dato sapere con precisione di quali cifre si parla. Ma contando anche l’aumento delle importazioni attraverso il gasdotto tunisino, la capacità italiana di stoccaggio in grado di garantire quattro mesi di autonomia, il procedere verso le stagioni più calde (senza dimenticare la dipendenza economica della Russia dalle sue stesse esportazioni) sembra che almeno il quadro energetico dia segnali positivi. In attesa degli sviluppi che verranno dai ben più tragici scenari ucraini.