(Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Roberta, nostra lettrice)

 

«Durante la decima settimana di gravidanza, ho avuto un aborto spontaneo: un’esperienza che non auguro nemmeno al mio peggior nemico. Sono una donna di scienza e so che tutto quell’orrido materiale che per più di due ore è fuoriuscito dal mio corpo non era ancora nulla. Ma sono anche una donna che per dieci settimane ha protetto quel nulla nel miglior modo possibile.

Dieci settimane in cui anche se sei ancora all’inizio tutto intorno a te diventa un potenziale pericolo e le tue abitudini devono cambiare necessariamente. Dieci settimane in cui durante le trasferte di lavoro ho dovuto inventare mal di testa e mal di stomaco per rifiutare un aperitivo con un cliente o una cena con un collega.

Poi è successo che l’embrione in totale autonomia ha deciso che non voleva proseguire il suo percorso. Così mi è stato spiegato dai medici mentre mi rassicuravano che non era colpa mia e che non avrei potuto fare altro se non stare a quelle regole che mi erano state date dal medico.

Ho avuto la fortuna di essere seguita da persone fantastiche che mi hanno controllata e rassicurata per tutta la notte e che hanno deciso di mandarmi a casa solo una volta certi che io stessi davvero bene.

Ho vissuto questa orribile esperienza da sola

Il mio ragazzo in trasferta a 900 km di distanza e che non è riuscito a tornare per i 6 giorni successivi perché “ho dei clienti importanti e nessuno che mi sostituisce”.

Così alle tre di notte, una volta abbandonata la mia barella e dimessa dall’ospedale, avevo solo voglia di salire sul taxi e tornare a casa il prima possibile, per poter sprofondare nel mio silenzio, nella mia intima sofferenza, nel mio disgustoso flusso di sangue e resti di nulla. Ma quando sono arrivata a casa invece di vivermi tutto questo ho lavato i denti, fatto una doccia, messo il pigiama e puntato la sveglia alle sette del giorno successivo.

Non ho dormito per nulla.

Al lavoro non ho nessuno che mi possa sostituire e in quei giorni stavo seguendo delle attività già pagate dal cliente. Per assentarmi mentre stavo seguendo una grossa commessa pari a metà del fatturato annuo di tutta l’azienda, serve un grosso motivo. Ed il grosso motivo io lo avevo, ma non potevo dirlo.

In realtà non potevo dire di essere incinta perché non avevo ancora superato i tre mesi.

Ero impaurita

di entrare fin da subito nel cerchio delle persone che devono dimostrare di poter essere mamme lavoratrici ancora prima di diventare davvero madri. E io, ancora prima di poter entrare in confidenza con quel nuovo ruolo, avrei dovuto mostrare di non avere un solo giorno di debolezza.

Non potevo assentarmi perché non potevo dire “ho avuto un aborto spontaneo e mi serve tempo” perché altrimenti sarei già entrata in quella lista nera di persone che, non oggi, ma a breve potrebbero assentarsi dal lavoro perché hanno voglia di avere un figlio.

Non potevo assentarmi perché in un ufficio di tutte donne ci sono solo due madri, una delle quali chiudeva i suoi figli in una stanza, da soli, già i primi giorni di vita, pur di rispondere alle call con il capo. Mentre l’altra non ha fatto un solo giorno di maternità per paura di perdere il lavoro e per la voglia di assecondare tutte le richieste del nostro capo.

Non potevo assentarmi perché in questo momento quei pochi soldi che prendo sono essenziali per pagare un piccolo prestito che da fuori sede ho dovuto contrarre.

Non potevo dichiarare nulla a voce alta perché io questa maternità avrei voluto viverla al meglio, avrei voluto avere il diritto di essere felice di senza sentirmi lo sguardo giudicante delle colleghe senza figli, come se le mie ore fossero terminate.

E così il giorno dopo il mio aborto spontaneo, mi sono alzata, ho nascosto il più possibile i miei occhi gonfi, le borse viola e nere sotto gli occhi, il braccio bucato dalle flebo, l’assorbente extralarge che mi hanno dato in ospedale ed ho messo lo zaino da lavoro sulle spalle.

Sono arrivata al lavoro puntuale, come è necessario che sia, ho svolto la mia attività in modo professionale come se nulla fosse. Ho lavorato oltre l’orario di lavoro, come ogni giorno. Ho riso alle battute delle colleghe che prendevano in giro chi l’indomani sarebbe stato costretto a partecipare alla recita dei figli a scuola ed ho ascoltato l’ennesimo sproloquio del mio capo su come ogni donna che ha avuto figli ha poi pianto perché non voleva assentarsi dal lavoro nemmeno un giorno.

Poi sono tornata a casa e al mio dolore si è aggiunto anche un profondo senso di schifo per me stessa che a 14 anni lottavo per i miei diritti, creando associazioni e petizioni, mentre a 34 anni ho dimenticato completamente quale sia il valore della vita e mi sono abbassata alle regole del gioco di un lavoro tossico.

I medici dicono che una donna su tre può avere un aborto spontaneo nei primi tre mesi di gravidanza. E chissà di queste quante lavorano in un ambiente tossico come il mio.

Io quel figlio non sapevo nemmeno di volerlo finché non è successo

ed ho la fortuna di avere molte risorse interne che mi hanno fatto star bene. Ma cosa sarebbe successo se io fossi stata una donna che quel figlio lo desiderava, magari da tanto? Se fossi stata una donna più fragile e con meno risorse?

Il non poter nemmeno elaborare il giorno dopo quanto accaduto mi ha fatto davvero riflettere su quanto il lavoro influenzi, anche senza volerlo, le nostre scelte. Avrei potuto comunque prendere un giorno di malattia ma sapevo che mi avrebbero chiesto cosa avessi e lì tutto il mio castello di pensieri è crollato».